Dopo aver assistito attoniti alla brusca autopresentazione di Rafael (Guillermo Toledo), che in un monologo-premessa fatto di repentini sguardi in macchina e ammiccamenti fastidiosamente irritanti riesce nel difficile intento di riempire la testa dello spettatore inerme con tutti (ma proprio tutti!) gli "alti" principi della sua etica privata e professionale, è davvero un sollievo constatare come al mondo esista ancora una giustizia superiore. Che poi essa si riveli come la diretta conseguenza di una caotica concatenazione di eventi per lo più improbabili poco importa. Sta di fatto che vedere sconfitto un personaggio come Rafael, quintessenza di tutto ciò che di più deprecabile possa esserci in un uomo, immagine grottesca ed estrema di quel complesso armamentario di vizi, di storture e di miseria ideale - ancor prima che morale - di cui la galoppante civiltà dei consumi e della pura apparenza è prima e diretta artefice, è certamente rassicurante. Perché la sua è la sconfitta, quanto mai legittima e onesta, di tutto un modo di pensare, di una filosofia di vita che definire pericolosamente "abbruttente" suona quasi come un eufemismo. L'antipatia endemica del personaggio (bravo Toledo a renderlo così odioso) avrebbe anzi richiesto una caduta ben più rovinosa rispetto a quella prospettata dal regista spagnolo, forse troppo tenero con la sua creatura.
Meno rassicurante tuttavia è assistere alla contemporanea - e opposta - ascesa di Lourdes (Mónica Cervera), la bruttissima e ignoratissima commessa del reparto abbigliamento femminile dei grandi magazzini Yeyo's, quello capitanato da Rafael, l'ambizioso, l'elegante sciupafemmine Rafael. Perché se a prima vista la sua scalata, che è inversamente proporzionale alla gustosa capitolazione del protagonista, potrebbe suonare come una sorta di giusta rivincita dell'escluso (ultimo aggiornamento della parabola del brutto anatroccolo), in realtà essa non è che il frutto di un atteggiamento che progressivamente si inscrive sempre più alla perfezione nelle perverse logiche dettate dalla "civiltà delle merci", dove tutto è simulacro e ogni azione è tristemente subordinata alla ricerca esclusiva del successo materiale, nonché alla costruzione di un'immagine di sé che sia il più conforme possibile ai pericolosi cliché appartenenti alla cultura mass-mediatica. Lourdes è il prodotto di quella civiltà tanto quanto lo è Rafael. Ne è il prodotto ingenuo e volgare, nell'apprezzare la tv spazzatura (lo Stranamore versione spagnola), nel collezionare fascicoli da edicola, nel desiderare una famiglia stile Mulino Bianco e un marito "bello come un calciatore" che tutte le altre donne le possano invidiare. Come tutti i personaggi dell'intreccio anche Lourdes è spinta, infatti, da una forma di egoismo, di invidia, di vanità, di volontà di prevaricazione senza limiti, la cui esplosione trova proprio nel centro commerciale, tempio moderno dell'apparenza e del consumismo, il suo luogo prediletto. Otterrà la consacrazione creando una linea di abbigliamento ispirata significativamente ad una curiosa quanto ridicola moda da clown. Come dire: non c'è mai limite al peggio.
L'affermazione di Álex de la Iglesia, secondo cui "per vincere nella vita bisogna trasformarsi in un buffone", è in questo senso paradigmatica. Ed è proprio l'inquietante metafora del pagliaccio, versione moderna e volgare della "maschera" che ognuno è costretto - suo malgrado - a costruirsi per stare al mondo, a rappresentare il significato forse più profondo e interessante di un film che, tolte alcune sequenze di dialogo irresistibili nelle quali il regista spagnolo sembra recuperare quello humour nero che aveva contraddistinto positivamente le sue opere precedenti (da Azione mutante a El dia de la bestia a La comunidad), ha ben poco di provocatorio e dissacrante. Se egli, infatti, si dimostra particolarmente abile nell'ormai classico "gioco delle citazioni" (l'Hitchoock di Dial M for Murder, i fratelli Wachowski di Matrix, il Danny Boyle di Trainspotting per arrivare ai fumetti di Goscinny e Uderzo del titolo originale Crimen Ferpecto), tanto da sfiorare a tratti il limite consentito, è anche vero che il pastiche di generi - così caro alla tradizione di certo cinema spagnolo - e la diversità di registri con i quali tiene insieme i pezzi del racconto assomiglia più che a un interessante ibrido dalla difficile collocazione ad un vero e proprio pasticcio. Degno di un Almodóvar poco ispirato.
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