Michael Hodges in conversation PDF 
di Martina Palaskov Begov   

Come ogni mese, il National Film Theatre di Londra, in collaborazione con il British Film Institute, propone anteprime cinematografiche nazionali o internazionali, spesso facendo intervenire attivamente registi, attori e scrittori. Il pubblico ha la possibilità di interagire direttamente con i creatori dell'opera che ha appena visto. Questo mese è stata la volta di Michael Hodges, regista estremamente produttivo, il quale ha lavorato molto per la televisione prima di dedicarsi alla settima arte. L'eclettico cineasta inglese ha prodotto film molto diversi. Il pubblico italiano lo ricorda per Flash Gordon (fra il cast italiano Mariangela Melato e Ornella Muti), Get Carter e Croupier.
L'incontro è terminato con un banchetto in onore di Lindsay Anderson. Molteplici personalità (tra le quali lo stesso Hodges e il produttore Mike Kaplan) hanno contribuito alla Fondazione Anderson per promuovere "la consapevolezza del lavoro svolto da uno dei più grandi documentaristi inglesi".

Michael Hodges ha conquistato il pubblico inglese già nel lontano 1971: Get Carter è stato definito dalla stampa nazionale come Il padrino inglese. Il viso serio, meditabondo, immobile del giovane gangster Jack Carter (Michael Caine), il suo impermeabile nero, gli occhi di ghiaccio e la chioma inconfondibile sono tutti elementi che hanno imposto un'immagine unica, singolare, ineffabile del malavitoso britannico. Carter ha una missione da compiere, vendicare la morte del fratello, perito misteriosamente dopo un incidente stradale. La scomparsa prematura del famigliare non convince Carter, il quale si reca da Londra nella cittadina di Newcastle per risolvere il mistero. La calma, la determinazione, il silenzio e la tenacia con cui l'antieroe svolge le sue meticolose indagini ricordano la fermezza di un samurai giapponese. Un profondo senso di solitudine circonda il malvivente. Egli procede lentamente verso la verità e raramente si concede il rassicurante sapore del sentimento umano; tipologia esistenziale molto prossima alla conformazione dell'androide.

La tematica della solitudine ritorna in molteplici produzioni del regista. Il film Croupier (1998), acclamato inaspettatamente oltre oceano, presenta un personaggio altrettanto intrigante e misterioso. L'attore Clive Owen è Jack Manfred, un cinico croupier che narra la sua vicenda allo spettatore attraverso un'efficace voice over. Le soluzioni e l'atmosfera si rifanno al noir degli anni Quaranta e Cinquanta, "con un tocco di essenziale contemporaneità", racconta il regista al curioso e divertito pubblico della NFT. "In gioventù ricordo di aver visionato parecchi film negli unici due cinema della mia cittadina (Bristol). Suppongo che le modalità di vedere e apprezzare una pellicola oggi siano molto cambiate. Ai miei tempi non esistevano le videocassette e il film si vedevano una sola volta, al cinema. Tutto ciò che avrebbe potuto influenzare noi giovani cinefili è paragonabile a una pennellata sulla tela. L'estetica del film ci tornava in mente, ma non avevamo la possibilità di rivedere ciò che ci aveva colpito. Quindi, suppongo che l'influenza venisse decisamente improntata sulla nostra personale soggettività cinematografica".

Nel suo ultimo film, I'll sleep when I'm dead (2004), il regista ripropone alcuni concetti cari alla propria filmografia. L'eroe, o meglio l'antieroe, è anch'egli un malavitoso londinese. Anch'egli compie un viaggio (torna nella capitale dopo aver passato tre anni nelle foreste) per risolvere il mistero che si cela dietro al suicidio del fratello minore. Hodges si serve nuovamente del grave volto di Clive Owen per dare corpo al suo personaggio. Il gangster pentito si è allontanato dalla capitale e spera di poter dimenticare il suo passato, di dimenticare se stesso. La morte improvvisa del fratello (Davy/Jonathan Rhys-Meyers) lo costringe non solo ad affrontare la città, ma anche gli incubi del suo passato. Il personaggio di Will Graham è silenzioso, solo e determinato nella sua impresa, come lo era Carter nel lontano 1971. La fratellanza, la famiglia, i sentimenti umani sono solo il veicolo che trascina il protagonista verso la resa dei conti. Egli non sorride, non piange, non corre, non si dimena, non sembra respirare…

"La solitudine è un elemento ricorrente nella trattazione psicologica del personaggio di Hodges", spiega Geoffrey Andrew, critico cinematografico del settimanale cittadino Time Out, programmatore del NFT e moderatore dell'incontro. Divertito, il vispo regista (nonostante l'età, settantadue anni) risponde: "suppongo di aver sofferto la solitudine quando ero bambino (ride)". Hanno poco di psicologicamente intrigante, le trame di Michael, infatti. La semplicità, la chiarezza, e la franchezza sono attributi che a lui piace usare. "Non solo le mie storie e i miei personaggi sono facilmente identificabili, ma anche il mio personale modo di girare il film. Ricordo di aver perso una notte intera, anni fa, nel programmare meticolosamente, nella mia mente, le diverse riprese e gli angoli di una scena. La mattina mi sentivo sicuro e consapevole. Con grande delusione, nelle molteplici immagini mentali della notte precedente, non avevo calcolato lo spessore e l'ingombro di alcuni elementi fondamentali della scenografia; tavoli, divani, telefoni. Tutte le mie buone intenzioni di girare quello che avevo in mente la notte prima sono andate in fumo. Da quel momento in poi ho deciso che di notte dormo e la mattina programmo le scene, cercando di girarle senza interruzione".

La velocità, l'immediatezza e la semplicità sono dunque caratteristiche della cinematografia di Hodges. "Il mio [ultimo] film è stato girato in soli 28 giorni" ricorda il regista, al quale il critico Andrews dona l'epiteto "straight foreward director" (1). "Non mi piace quando il regista si serve delle immagini illusorie della macchina Cinema per manipolare il proprio pubblico. Noto questa voglia di ammaliare tramite effetti speciali, inquadrature bizzarre…Un corto che ho girato molto tempo fa, intitolato Il Manipolatore parla di ciò."

Presente in sala c'erano anche l'attore principale e l'attrice icona Sylvia Syms, che nel film compare come disorientata dirimpettaia dello sfortunato Davy. L'attrice, alla quale il National Film Theatre dedicherà una retrospettiva completa il prossimo mese di aprile, ha posto una domanda alquanto interessante a Michael: "perché hai quel modo molto particolare e personale di inquadrare il viso maschile?".

Nonostante la domanda posta dalla Syms all'ironico regista avesse un'inclinazione decisamente provocatoria (soprattutto perché il film e l'evento sono stati inglobati all'interno dell'annuale Festival cinematografico gay e lesbico), la questione solleva curiose considerazioni sul modo di presentare il severo volto dei vendicatori solitari. Il close-up, primissimo piano, soprattutto nel film Get Carter, permette all'attore di esprimere tutta la determinazione del personaggio. Il volto corrucciato maschile (anche quello di Meyers) contrapposto al viso solare, triste, ma brillante della ancora bellissima Charlotte Rampling, la dolce Helen in I'll sleep when I'm dead.

Il film è stato scritto da Hodges assieme a Trevor Preston, anch'egli presente all'incontro. I due hanno discusso della loro lunga amicizia (sono stati vicini di casa) e di come la sceneggiatura sia cambiata in fase di sviluppo. "È stato Michael a proporre di cambiare età all'amante di Will. Inizialmente non avevo notato quanta differenza semantica potesse avere tale scelta, solo dopo un paio di settimane ho capito quanto questo sottile dettaglio avrebbe cambiato la tipologia del personaggio. Il sesso é un importante elemento nel film. Abbiamo voluto discutere l'impatto della contemporanea interpretazione sessuale, della differenza nell'approcciare il sesso oggi e di come la moderna intimità affligge le persone della nostra generazione, forse ancora troppo confuse e, perché no, invidiose".

Hodges ricorda con grande gioia in particolare un suo film, di cui ha proposto un estratto all'incontro, Black Rainbow (1989) con Rosanna Arquette e Jason Robards. "Il film narra dei poteri straordinari di una medium. Ho deciso di partire dal genere thriller per parlare di una serie di problematiche che mi interessavano. Sono cresciuto con un'educazione cattolica. Negli anni Cinquanta e Sessanta ho gradualmente perso la fede e, se debbo essere sincero, sono rimasto abbastanza scioccato…come quando un bimbo si rende conto che Babbo Natale non esiste. Ho deciso di girare questo film per parlare della religione dunque, dell'altro mondo, ma anche del tempo. Il tempo umano che affligge la terra. Nessuno, ancora oggi, si rende conto della gravità di sottovalutare tematiche ecologiche."

Il debutto del film più violento della storia (secondo molti) è alle porte. Viviamo in un'epoca dove ogni modalità di interpretazione cinematografica sembra essere inflazionata. Non diventa più efficace artisticamente o soggettivamente rappresentare la violenza umana, ma l'imperativo è mostrarla nella sua interezza e apparente veridicità. Dico apparente perché la m.d.p impedisce alla realtà fenomenica di manifestarsi completamente attraverso la pellicola (fatta eccezione per i porno film, gli snuff o i documentari naturalistici). Come riproduce la violenza Michael Hodges? "Ho sempre voluto che l'atto violento di uccidere, intimidire o semplicemente disturbare fosse maldestro. Spesso la violenza risulta ridicola poiché istintiva, confusa e goffa, ubriaca, amatoriale. Inoltre la mia è una rappresentazione molto plateale, non impressionante, forse più teatrale. Non è mia intenzione sconvolgere il pubblico ma solo inserire il momento violento per donare continuità e progressione alla vicenda: i miei non sono film dell'orrore."
Divertito, divertente ed estremamente vitale, Hodges continua a creare e presentare realtà cupe, complicate, marginali, dando, tuttavia, un tocco unico all'atmosfera e alla struttura del film.

(1) Un regista che arriva subito al punto

 


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