Brothers: il tributo di Jim Sheridan PDF 
Gianpiero Ariola   

Jim Sheridan, per il suo Brothers, decide di seguire piuttosto fedelmente il film di Susanne Bier Non desiderare la donna d’altri, lasciandone quasi intatto l’intreccio, oltre che la fabula, e rendendo facilmente riconoscibili quasi tutte le scene. È un rifacimento che si colloca, pertanto, su un piano di chiaro omaggio (1). Certo, la pratica del remake, ad opera di un cineasta abituato a curare i suoi lavori fin dallo script, suscita senza dubbio una notevole curiosità di fondo e invita allo smascheramento delle motivazioni che hanno condotto a una replica così esibita, intrisa di un vero e proprio atto di stima nei confronti della regista danese. In questa prospettiva è interessante riflettere sul lavoro endosemiotico (2) operato dal remake, analizzandone i continui slittamenti e riallacciamenti rispetto alla pellicola originaria.

In generale, si può affermare che il regista irlandese imposta il suo ricalco secondo differenti sviluppi di semantizzazione e con ecolalie più o meno esplicite, le quali appaiono, talvolta, quali banali chiarimenti, se inseriti all’interno di quelle zone di dubbiose falle, quasi iati emotivi, che la regista danese lascia deliberatamente vuoti. È tipico dello stile della Bier, infatti, tentare forti escursioni psicologiche per sondare l’animo umano, esponendolo a quegli eventi liminali, dotati di una forte carica destabilizzante, a cui non si può che reagire con l’incertezza, la fragilità e un’inevitabile ambiguità morale. Sheridan tende a introdurre, tra queste pieghe, qualche dettaglio in più, che se pure infonde un senso di maggiore chiarificazione, a vantaggio di una rilassatezza cognitiva dello spettatore, non spostano certo l’asse della diegesi verso alcuni personaggi, né semplificano una vicenda peculiarmente complessa. Ad esempio, era proprio necessaria quella telefonata, verso il finale, per ribadire ulteriormente il legame fraterno? L’esplicitazione verbale (la parola "fratello" che si ripete) è capace di sbrogliare, in un sol colpo, una matassa audiovisiva ben più intricata (3)? In realtà, lo stesso titolo suggerirebbe chiaramente l’intento di affidare i ruoli principali ai due fratelli, eppure lo schema narrativo ne confonde i profili in una trama intricata, che fa prevalere lo schiacciamento psicologico di Sam e una generale supremazia degli eventi sul singolo. 

Ad essere più precisi, i veri motori della storia sono i due eventi paralleli, nella parte centrale (Sam in Afghanistan, la sua famiglia in patria), anche se i momenti di verifica dei loro inneschi diegetici sono le situazioni conviviali, attraverso cui si possono leggere, per confronto, la consistenza dei drammi consumati e lo sconvolgimento delle personalità, nonché dei legami reciproci (si pensi soltanto alla differenza tra la cena iniziale, dopo il rilascio di Jannik/Tom, e quella del compleanno di Camilla/Maggie, passando per il momento intermedio della festa in onore di Sarah/Grace e per la prima cena in famiglia, dopo il ritorno di Michael/Sam). Sono la vera cartina di tornasole di quanto hanno prodotto le due azioni parallele, con il loro devastante potere sovversivo. Quasi un esperimento diabolico per dimostrare la reversibilità morale dei due fratelli, svelando, proprio nei momenti di aggregazione, i palesi rivolgimenti delle loro relazioni con gli altri membri della famiglia (la gelosia di Sam verso la moglie e verso il fratello, la sua incapacità di sopportare i rumori in eccesso, i capricci e i giochi fantasiosi delle figlie, la preoccupazione e il sospetto da parte del padre, l’apprensione mediatrice della madre, la paura della figlia maggiore verso il padre e il suo nuovo affetto per lo zio, l’imbarazzo da parte dei due cognati).  È  proprio in questo coacervo di emotività incrociate che Sheridan cerca di declinare l’ipotesto della Bier alla sua maniera, scegliendo di attirare l’attenzione sui risvolti della tragedia psicologica di Sam, mediante più incisivi riferimenti agli “attori” del sistema familiare, quasi a volerne smascherare le cause. Tesse, quindi, la trama degli eventi, omessi dal plot originario, che rimandano all’educazione dei due fratelli, al passato burrascoso del padre, alla reazione di quest’ultimo, simile a quella di Sam, al ritorno dal Vietnam (la scena in cui Hank confessa al figlio il suo disagio da reduce e gli offre ascolto e conforto è totalmente nuova). Ma viene anche calcato il coinvolgimento dei bambini nelle situazioni drammatiche. Un coinvolgimento che i genitori permettono con una sconvolgente leggerezza e irresponsabilità (basti ricordare la scena della cena per il compleanno di Maggie e la reazione di Isabelle, che sembra tradire un’impressione che va oltre il semplice capriccio; per non parlare del ragazzino afghano, costretto ad assistere ad atti di violenza, concepiti con tutta la solennità di momenti cruciali per la sua educazione).

Insomma, il regista irlandese fa emergere con maggiore decisione quei malsani rapporti pedagogici che nel film della Bier rimangono pudicamente sopiti, agendo più come sottrazioni allusive e lasciando il tessuto diegetico decisamente più poroso.  In fondo, nei film della regista danese è consueto assistere a un gioco di inversioni di ruoli e sovrapposizioni di corpi, che inevitabilmente attuano fratture irrisolte, compensate però da un sensibile livello di discrezione (4). Si può affermare, a tal proposito, che quel flusso indefinito che nei film della cineasta danese portava sullo schermo “stati provvisori dell’esistenza” (5) è reinterpretato da Sheridan più come un accostamento di sentieri, un affiancamento di profili. Egli concede quel tanto in più agli sguardi dei singoli, quel tanto di slittamento delle vicinanze, che le figure tendono a staccarsi dallo sfondo e ad alternarsi ad esso, avvicendandosi con gli altri protagonisti. Si rammenti, ad esempio, la scena dell’aeroporto, in cui il regista irlandese, una volta che la porta d’entrata viene aperta dall’impazienza delle bambine, tra gli abbracci reciproci, concede qualche attimo in più a Tommy, alla sua incerta espressione. Insomma, dopo il parallelismo che segue i destini separati dei due fratelli, il loro ricongiungimento apre il problema della ri-sostituzione dei ruoli. Sheridan scandisce questo cambio di attenzione trattenendo Tommy sullo schermo per qualche secondo, prima di farlo scivolare inesorabilmente sullo sfondo, dato che gli occhi sono tutti puntati su Sam. Nella pellicola della Bier, al contrario, tutto accadeva e basta, il turbine dell’evento non concedeva spazio ad alcun avvicendamento di protagonismi.

Di particolare interesse risulta, poi, la comparsa della videocamera digitale quale elemento narrativo. Si tratta di un’innovazione rispetto alla pellicola prototipo, che inoltre si fa carico di una citazione, stavolta implicita. Grazie all’inserimento di alcuni fotogrammi girati con la camera a spalla, come fossero soggettive della videocamera stessa, si richiama, infatti, quell’effetto di mosso largamente utilizzato dalla regista danese nella sua pellicola (retaggio dei suoi trascorsi “dogmatici”). I percorsi intersemiotici che si aprono, a questo punto, sono densi e culminano con la scena conclusiva in cui la camera a mano finisce a terra bruciata, durante l’attacco al campo di prigionia talebano. Cosa brucia esattamente con quel nastro? Indubbiamente, si decreta, patriotticamente, il fallimento dell’azione terroristica, minandone la diffusione del messaggio criminoso. Ma, al di là di questo banale riferimento, l’inquadratura della videocamera distrutta lavora con una doppia valenza semantica, all’interno ma anche all’esterno del film. Infatti, ad un livello di significazione intratestuale, esprime l’impossibilità di ri-vedere, identico e inquietante, ciò che resterà invece vivissimo nella mente disturbata del capitano, il quale comincerà a riprodurre gli asfittici meccanismi militari, improntati alla razionalità, alla strategia, allo stare all’erta, nell’ambito della famiglia, ovvero in un contesto totalmente inadatto e incapace di accoglierne le ragioni. Una ridondanza perniciosa, a livello psicologico, che comincia con l’innocua ossessione di accumulare copie, più o meno fedeli, della realtà (emblematica la scena dell’arrivo in Afghanistan, in cui è usato il telefonino per riprendere i paesaggi e i bambini per strada) e diventa esasperazione della differenza (la copia è simile ma non uguale a ciò che ritrae) e della ripetizione. Le tre scene, durante la prigionia, mostrano appunto la videocamera raddoppiare, diversificare e intensificare il dramma per creare una copia-testimonianza da ritorcere contro i prigionieri, quale copia-manipolazione della realtà (la prima scena è quella dell’esecuzione del talebano traditore, in cui le immagini della camera a spalla diventano soggettive della videocamera; la seconda è quella della confessione del commilitone, registrata e mostrata poi a Sam, in cui viene inquadrato sia il mirino della videocamera, sia il volto di Sam mentre guarda nel mirino e le stesse immagini riprodotte diventano veri e propri fotogrammi, a schermo intero, del film stesso; la terza è quella in cui Sam è costretto a uccidere il commilitone, in cui la videocamera, che all’inizio è relegata ai margini del quadro, compare poi, brevemente, in piano ravvicinato, offrendo il proprio punto di vista esattamente nel momento culminante).

Si tratta, tuttavia, di una copia destinata ormai al declino. Ad un livello metatestuale, difatti, la stessa immagine della videocamera distrutta sembra avallare quella crisi della visione, assorbita dal cinema contemporaneo, che, secondo Gianni Canova, decreterebbe il tramonto della percezione visiva, così come della fiducia riposta dallo spettatore nei mezzi di riproduzione ottica (6). Ecco perché a generare la credibilità della frattura psichica devono intervenire le “impressioni” a fuoco della tortura, inflitta mediante un ferro arroventato. Ecco perché il fallimento iconico, che invocando il suo raddoppiamento ottiene solo risultati poco convincenti, dovrà affidarsi alla percezione estesa (7) del dolore epidermico (il fuoco sulla pelle) e del disorientamento acustico, per riuscire ad ottenere l’effetto realistico di infrangere l’equilibrio mentale (nella scena dell’uccisione coatta del compagno, infatti, anche l’audio si raddoppia, anzi si moltiplica: le voci dei guerriglieri e i prolungati suoni taglienti a livello extra-diegetico generano un’accelerazione del ritmo audiovisivo, producendo una sensazione di penetrazione dolorosa, acuta e sospesa). In fondo anche Non desiderare la donna d’altri non aveva lesinato sugli effetti extra-visivi, creando immagini di vertigini così nauseanti da provocare il vomito, al protagonista quanto allo spettatore (si veda la scena in cui Michael è riportato in cella dopo averlo costretto ad assassinare un soldato alleato).

Rimanendo nel merito degli effetti audiovisivi è inoltre fruttuosa l’analisi parallela di altre due sequenze.  La prima è quella della notizia scioccante della presunta morte di Michael/Sam. Entrambi i registi la sottolineano col silenzio, forse l’unico davvero efficace per esprimere tale situazione, eppure l’effetto straniante e di irreale sospensione non è lo stesso. In Non desiderare la donna d’altri, quei pochi secondi in cui la camera si sofferma sul volto imbarazzato dell’ufficiale creano un’atmosfera innaturale, non di catatonica sorpresa ma di intima proiezione. Il regista irlandese, invece, introduce subito il clima di disperazione con l’espressione preoccupata e stravolta di Grace, e il silenzio dura poco, lo spettatore è subito scaraventato a partecipare della tristezza della famiglia. Il contrario avviene per la seconda scena, quella in cui Sam si punta la pistola alla tempia, durante lo scontro con la polizia. Sul primo piano del volto di Sam, una musica di sottofondo cresce dinamicamente e la voce di Grace che chiama il nome del marito non si ode. Poi il volume della musica si abbassa e si sente Tommy che gli dice: “Tu sei mio fratello” e Grace che grida il suo nome. È una sorta di soggettiva acustica, ovvero è come se nella mente del personaggio il dolore e lo smarrimento prendessero una forma musicale, isolandolo da ogni rumore circostante. Nel film della Bier oltre a non esserci traccia del gesto di tentato suicidio, non c’è neppure un intervento musicale. Eppure con questo gioco audiovisivo di disorientamento, Sheridan sembra rimandare, alla stregua di una citazione incrociata, a quell’atmosfera innaturale che la Bier otteneva nella scena del tragico annuncio. È una conferma di quell’esigenza, da parte di entrambi i cineasti, di affidarsi a sensazioni extra-ottiche per esprimere i momenti più drammatici.

In conclusione, un’ultima riflessione su come il regista irlandese costruisce il ritmo della narrazione, creando un ultimo scollamento rispetto al film prototipo e aderendo a modalità di sviluppo più consuete. Sheridan sceglie di amplificare quel meccanismo di suspense celato nella sceneggiatura, lasciando lievitare la tensione attraverso vari indizi e preparando pazientemente il momento di esplosione finale. Sam sembra infatti accumulare tensione su tensione, in solitudine, liberando la sua rabbia repressa soltanto nell’epilogo, tenendo lo spettatore in un costante stato di trepidazione. Le scene, che nel film danese svelavano l’irritazione e la violenza del reduce, sono omesse (come quella in cui Michael prende Sarah per il collo, minacciandola) o comunque levigate nelle asperità emotive (come quella della battuta delle bambine sul cane-elefante; Michael si altera palesemente, mentre Sam si limita ad alzarsi e allontanarsi).  Le dinamiche dello svolgimento tendono tutte ad accrescere quell’ansia dell’attesa, senza far trapelare troppo esplicitamente la carica aggressiva di Sam, senza farla sfogare, e innescando così, nello spettatore, quel desiderio di risoluzione della sofferenza, intuita ma lasciata in sospeso. Infatti, nella scena dello sfogo, a cui segue lo scontro con la polizia, tutto inizia con la preoccupazione di Grace, che decide di chiamare Tommy e poi la polizia, prima ancora che accada nulla. Questa anticipazione è un chiaro avvertimento dell’esplosione di rabbia (e non solo) che sta per consumarsi. È un conclusione talmente attesa che la donna assiste piangente alla distruzione della cucina, prova timore ma soprattutto pena e tristezza, senza scappare via con le bambine (come aveva fatto Sarah in Non desiderare la donna d’altri). Certo, anche la Bier non evita di far trapelare tensione e disorientamento per lo strano atteggiamento di Michael, ma lascia più liberi gli avvenimenti di svolgersi, inseguendoli e avvinghiandoli solo dopo il loro dispiegamento. La sua prospettiva suscita un maggior senso di sorpresa e un senso di paura più intenso per l’inattesa degenerazione dei fatti. 

La divergenza dei due procedimenti narrativi era, in fondo, chiara già con la scena in cui Michael/Sam invita la famiglia a sdraiarsi sul letto e quella successiva in cui riordina i bicchieri e le tazze: sono le prime avvisaglie del disturbo avvertito dal reduce di guerra. La Bier correda la narrazione di dettagli e primi piani (l’occhio, il mento di Michael), descrivendo il dirigersi dell’uomo verso il letto e la sua immobilità successiva. Descrive lo stupore delle figlie e della moglie, con la curiosità e insieme la pudicizia di un osservatore munito di una iper-attenzione diffusa ma ancora inconsapevole. Lo sguardo della regista sembra in all’erta, pronto a non perdersi la reazione improvvisa della ragazzina che vuole andare a guardare la tv e al battibecco delle sorelline sulla possibilità di morire due volte. Tutto sembra svolgersi a scatti, come una novità da scoprire in maniera estemporanea. Sheridan, invece, pare cominciare un percorso preciso, avvicinandosi gradualmente. Trasmette un maggiore distacco e si limita a ritrarre un momento che è quasi idilliaco, partendo da un grado zero di tensione. Sembra che tutto si possa ancora ricomporre facilmente e i primi segni di stranezza si palesano, gradatamente, a partire dalla scena successiva, in cui Sam è in bagno a farsi la barba. Il fastidio per l’apertura della porta e per il contatto cercato dalla moglie, il cui volto fa fatica a inquadrarsi nel riflesso dello specchio, cominciano a lanciare qualche segnale d’allarme. Poi, subito dopo, i bicchieri risistemati simmetricamente da Sam, avvertono ormai Grace, che ne ode il tintinnio, e insieme lo spettatore stesso, che un processo irreversibile si è ormai innescato.

Appare evidente, dunque, quanto Sheridan sappia tenere sulle spine lo spettatore e sappia infondere la sua opera di un pungente sapore thriller, laddove la regista danese aveva imprigionato lo sguardo con il proprio mantice di movimenti (la camera è spesso addosso ai personaggi, li cerca con scatti bruschi) e dinamiche (la continua dilatazione e accelerazione del ritmo). Tuttavia, a causa di una scarsa capacità di osare sul piano estetico, da parte del regista irlandese, il Brothers di Sheridan, pur apparendo un film solido, pare non trovare pienamente la sua identità, e quel tributo così rivendicato verso il suo prototipo, e in particolare verso la sua sceneggiatura (8), rischia, per certi versi, di tramutarsi in un ingombrante debito.

Note:
(1) Cfr. Dusi, N., Spaziante, L., Introduzione – Pratiche di replicabilità in Dusi, N., Spaziante, L., a cura, Remix-Remake, Roma, Meltemi, 2006, p. 19 e Dusi, N., Replicabilità audiovisiva, ivi, pp. 108-113. Sono varie le classifiche stilate sulle tipologie di remake. È utile ricordare, oltre alla distinzione che fa Eco tra le varie forme di rifacimento (ironico, omaggio, riscoperta, finto ricalco), la polemica, avanzata da Bruno, relativamente a quelli che definisce remake espliciti, in cui il nostro film si colloca. Egli ironizza sulla sfrontata attività dell’industria hollywoodiana di rifare molti film europei, con la pretesa di migliorarli.

(2) Ibidem. La traduzione endosemiotica è quella che Eco ritiene più pertinente per contrassegnare la pratica di remake, in quanto si riferisce a un testo anch’esso filmico, ovvero dello “stesso supporto materiale”. Il lavoro di “traduzione” è quindi tutto interno alla sceneggiatura e non rimanda ad altri testi letterari di ispirazione.

(3) Non si esclude che anche Sheridan abbia subito il consueto condizionamento dalla logica industriale hollywoodiana, che impone, per ragioni commerciali, di tradurre la nomenclatura dei personaggi, la sottolineatura del Corpo dei Marines, l’adattamento dei costumi e tutto ciò che può favorire una facile immedesimazione da parte del pubblico statunitense.

(4) Emiliani, S., Nei colori raggelati di una realtà sospesa, in «Cineforum», n. 476, p. 30. Simone Emiliani, a proposito di Susanne Bier e confrontando, in particolare, Non desiderare la donna d’altri con Noi due sconosciuti, parla di come questa “discrezione” nell’avvicinare le vicende restituisca “reazioni a livello epidermico”, non presenti “così compiute” in fase di scrittura ma messe in atto proprio dalla capacità della regista.

(5) Ibidem

(6) Canova, G., L’alieno e il pipistrello, Milano, Bompiani, 2000, p. 39. Scrive Canova: “Se il cinema moderno era comunque convinto di poter sopperire con la propria tecnologia riproduttiva alle debolezze, alle fragilità o alle miopie dello sguardo umano […], il cinema contemporaneo non ci crede più. Sa che la tecnologia […] serve sempre più spesso a simulare il falso”.

(7) Ivi, p. 150. Canova afferma che in luogo del privilegio del guardare entrano “flussi plurisensoriali” a coinvolgere lo spettatore.

(8) La struttura dello script sembra essere il vero e proprio oggetto di tributo operato dal remake. I titoli di testa indicano chiaramente l’intento di rifacimento del film Brødre, citandone non solo la regista ma anche il co-autore (insieme alla stessa Bier) della sceneggiatura Anders Thomas Jensen.

 


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