Muovendo uno sguardo retrospettivo su Sean Penn regista, l’ultimo lavoro Into the Wild spinge inevitabilmente ad accostarsi all’esordio dell’attore californiano dietro la macchina da presa, avvenuto, nel 1991, con l’opera più originale di tutta la sua filmografia, The Indian Runner (Lupo solitario). E avvicinare, così, questi due film, significa lasciarsi attraversare dalle inquietudini che agitano un paesaggio americano soltanto apparentemente tranquillo. Significa muoversi stando sempre scrupolosamente ai bordi, lungo relazioni sociali borderline, nel tentativo di dissezionare, con un certo radicalismo, l’uomo dalla sua società. Sia che si tratti dei ragionevoli dubbi esistenziali del giovane intellettuale e anticonsumista di Into the Wild, sia che si tratti dei violenti sfoghi di rabbia distruttrice di un ribelle come il Frank di The Indian Runner, ci troveremo a fare i conti con vere e proprie esplosioni interiori, pur dentro ai sicuri confini di uno Stato che sullo sfondo è sempre in guerra, gli USA di fine anni ’60 usciti dall’incubo del Vietnam nel film d’esordio, dei primi anni ’90 della guerra del Golfo nell’ultima regia. Pensato nell’arco di otto anni, il primo lavoro scritto e diretto da Penn si ispira a una canzone di Bruce Springsteen, “Highway Patrolman”. È la storia di due fratelli, uno buono, Joe (il “gigante“ David Morse), l’altro con una reputazione di attaccabrighe e di buono a nulla fin da ragazzo, Frank (Viggo Mortensen). Forse per questo motivo Frank si era arruolato nell’esercito ed era partito per il Vietnam. Lo ritroviamo al suo ritorno in uniforme da eroe, e il giorno dopo, invece, dietro le sbarre a finire di scontare la pena di un crimine commesso prima di entrare nell’esercito. Una distonia che non sarà priva di conseguenze. Joe è dall’altra parte della barricata, è un poliziotto innamorato della vita e della sua famiglia. Dopo la prigione, Frank tenta di condurre una vita regolare, ha una relazione sentimentale stabile e un lavoro da manovale. Ma un giorno, Joe lo ritrova solo in casa con un fucile, nudo, ubriaco, che fuma in piedi davanti allo specchio. “C’era uno che mi disturbava, e forse ero io” confessa Frank. Pare vivere in lui un indefinibile demone interiore, ha il volto trasfigurato, strizza le labbra, il viso gli si appuntisce in una smorfia di disgusto. Sanguina sotto il bancone di un bar dopo aver aggredito un tizio che lo guardava. Joe si sforza di capire dove affondano le radici di quel malessere, gli vuole bene, ascolta i suoi sfoghi rabbiosi, osserva la sua violenza incontrollata. Cerca di raddrizzarlo, conviene con lui che “questo mondo manca di tenerezza”. Joe guarda sua moglie (Valeria Golino) seduta per terra mentre tiene il loro bambino, lei si gira e gli sorride. È tutto quello che Joe desidera e che lo rende innamorato della vita. Ma per Frank ha solo gli occhi chiusi. “Sto riparando un ponte, perché flaccidi ricchi in pensione e le loro flaccide mogli e i loro fottuti bambini grassi ci passino sopra con le loro case motorizzate”. È un’anima lacerata a cui la società non riesce a dare speranze di una vita migliore, e neppure un po’ di buon senso. E Frank si scontra, perdente, con l’uso legalizzato della violenza da parte della polizia: “ci sono due tipi di uomini in questo inferno, o sei un eroe o un fuorilegge”. Solo Joe vede ancora una giustizia, “là fuori c’è la famiglia, qui dentro c’è la pazzia”. Nei rari momenti in cui Frank è felice dominano i ricordi d’infanzia e un’idea di libertà legata a una vita selvaggia. Fin da bambino porta con sé la fascinazione per un tempo in cui, tutto intorno, c’erano accampamenti Sioux, quando gli indiani passavano da quelle terre per recapitare messaggi. Lo sguardo di Penn è sovente sospeso, come sospesi sono i giudizi e, in brevi momenti, la narrazione lascia misuratamente parlare il paesaggio, brandelli di città, una spiaggia, delle auto parcheggiate, un campo innevato, un campanile. Il montaggio sembra fra “respirare” le immagini e, allo stesso tempo, permette di attaccarsi con partecipazione a quell’umanità che si aggrappa alla vita, oppure che ha deciso di voltarle le spalle per sempre. TITOLO ORIGINALE: The Indian Runner; REGIA: Sean Penn; SCENEGGIATURA: Sean Penn; FOTOGRAFIA: Anthony B. Richmond; MONTAGGIO: Jay Cassidy; MUSICA: Jack Nitzsche; PRODUZIONE: USA/Giappone; ANNO: 1991; DURATA: 127 min.
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