Mrs. Dalloway: forme del tempo e dello spazio in The Hours PDF 
di Barbara Rossi   

" Oramai lo spazio in sé e il tempo in sé sono destinati a svanire come delle pure ombre, e solo una sorta di unione dei due conserverà una realtà indipendente".
H.Minkowski

1941. Apertura e chiusura, prologo ed epilogo. Intorno alle fluide, movimentate inquadrature di una campagna verdeggiante, di un corso d'acqua (un fiume, una vita) che scorre eterno e immutabile nel suo continuo dinamismo (non è una perfetta metafora del cinema?), alveo di opposizioni radicali - alto/basso, luce/ombra, e, per traslato, bene/male - quanto difficili da sondare, di un corpo – macigno (o, se vogliamo, un corpo - feto) che sprofonda sempre più nel mistero dell'acqua come in un liquido amniotico, il regista Stephen Daldry costruisce la rarefatta impalcatura narrativa di The Hours.

Intorno a quest'immagine - vero e proprio topos figurativo oltre che nodo cruciale del racconto, dove motivi opposti e disparati si ricongiungono, in un estremo tentativo di sintesi e significazione - ruota una pellicola attraversata da uno spirito panteistico ed eracliteo, molto vicina nel suo perfetto animismo non solo al romanzo Le Ore di Michael Cunningham, da cui è tratta la sceneggiatura, ma soprattutto a La signora Dalloway di Virginia Woolf, il libro - ombra, l'alter - ego narrativo comune denominatore delle tre storie femminili raccontate in parallelo.


Suggestioni bergmaniane (il doloroso realismo delle prime opere del regista svedese, ma anche l'indagine psicologica del più tardo Sussurri e grida [1973], quella ferrea volontà di illuminare una tribolata condizione femminile, con risultati allargati, universali; di scavare nelle pieghe dell'anima alla ricerca di un omesso senso del divino; la meditazione sulla morte come presenza fondante dell'esistenza) pervadono quello che, tuttavia, non può venire frettolosamente etichettato come un film da camera (nonostante l'impostazione letteraria ed intimista), in quanto ancora soggiacente a degli stilemi narrativi tradizionali, né tantomeno come un film femminista, perché i dubbi, le crisi, i sensi di colpa e le infelicità radicali delle tre protagoniste, non sottoposte a un giudizio morale, sono solo il punto di partenza per un discorso più vasto.

 

Il sentimento di morte in The Hours è declinato in due differenti modalità: c'è la morte fisica pura e semplice, la cessazione biologica delle funzioni vitali, a volte ricercata dagli stessi esseri umani (i due suicidi, di Virginia e di Richard), oppure, più naturalmente, tollerata dal resto del creato (la morte dell'uccellino trovato dalla nipote di Virginia, che innesca una fitta serie di domande e risposte sul tema: "Dove si va quando si muore?" "Si torna da dove si è venuti", "Io non mi ricordo da dove sono venuta" "Nemmeno io"); e c'è quella che potremmo definire la morte interiore, più atroce della morte biologica, il lento stillicidio dell'anima che si dissocia dalla propria vita e dal mondo (esperienza vissuta da tutte e tre le donne, e che viene opportunamente esaltata non solo dall'incisività di alcune battute: "Qualcuno deve morire", "Vivo una vita che non ho desiderio di vivere", "Quella era la morte, ho scelto la vita", ma anche da efficaci primi piani, rivelatori di inquietudini sottili eppure taglienti come rasoi).

 

Fra la morte fisica e la morte interiore a prevalere è, per fortuna, una terza possibilità, quella della rinascita: se Virginia soccombe deliberatamente, dopo essersi resa conto che è "il poeta, il visionario" a dover morire perché gli altri possano vivere, è anche vero che il suo monito "Non si può trovare la pace evitando la vita" viene in qualche modo introiettato, su differenti piani spazio - temporali, sia dalla Laura che vive a Los Angeles nel 1951 (compiendo una difficile scelta di vita proprio durante la lettura di La signora Dalloway), sia dalla Clarissa (ritorna il nome della protagonista del romanzo della Woolf) che vive a New York nel 2000; entrambe figure allotropiche della medesima individualità (la Virginia scrittrice che vive a Richmond nel 1923), ossia disgiunte manifestazioni temporali della stessa sostanza vitale che, esulando dal principio di non - contraddizione nella prospettiva di un tempo aperto, circolare, possono anche arrivare ad incontrarsi (come infatti accade a Laura e Clarissa nel film).

Questo superamento cinematografico della linearità temporale, dell'irreversibilità del presente è, del resto, un espediente perfettamente in sintonia con quella poetica del flusso di coscienza ampiamente sperimentata dalla Woolf nei suoi romanzi, ne La signora Dalloway in particolare, ma anche in Gita al faro e in Orlando, nel quale, come in questo caso, il tempo oggettivo si annulla sostituito dal tempo frammentato dell'anima, divisa fra ricordi e riflessioni. Un tempo senza tempo, dunque, al di là del fenomenico trascorrere delle ore, ma anche un tempo senza spazio, in cui la natura, i differenti paesaggi ambientali (dalla amena campagna di Richmond ai villini anni '50 di un quartiere residenziale di Los Angeles fino alla caotica e convulsa New York odierna) non sono che le singole figurazioni di un'unica geografia della coscienza.

In tal senso il lavoro del montaggio (coadiuvato dall'uso della voice over, specie all'inizio e alla fine del film) è finalizzato a rendere esplicito il monologo interiore di questa supercoscienza, attraverso il gioco di parallelismi instaurato fra tre donne che iniziano le loro giornate con gli stessi gesti, che si ricordano di comprare i fiori ("La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati lei"), e che, in bilico fra il desiderio e la frustrazione dello stesso, si rendono conto che la felicità non può essere relegata in un passato mitico e la vita va vissuta per quello che è. Dalla letterarietà dell'assunto si travalica, quindi, in una estetica del cinema come attestazione di una frantumazione sempre più profonda dell'identità contemporanea, bisognosa di ri(fondarsi) pur nella reversibilità di un tempo ciclico.

 


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