Nella zona portuale di Sete, vicino a Marsiglia, un sessantenne immigrato tunisino, tale Slimane Beiji, si trova in grosse difficoltà economiche; per risollevarsi vorrebbe aprire un ristorante di cui il tipico piatto magrebino costituisca la specialità, tentando di coinvolgere l’intera famiglia (allargata) nel progetto. Partiamo dal presupposto che è profondamente ingiusto (e un po’ inutile) illustrare la trama di Cous Cous (titolo originale: La graine et la mulet, la semola e il cefalo); prima ancora che nei confronti del lettore, in quelli del film stesso. “Ingiusto” (e riduttivo) perché forse non è nemmeno corretto parlare di una “storia” intesa nella sua accezione tipicamente narrativa, lineare, quando i protagonisti appaiono e scompaiono senza soluzione di continuità, la vicenda non ha un compimento ben preciso, e se per questo nemmeno una vera e propria conclusione. Si tratta solamente di inquadrare un periodo qualsiasi nella storia di una famiglia (ugualmente “qualsiasi”), che viene troncato improvvisamente (in senso letterale) alla fine del film, sentendo forse di non dovere nulla allo spettatore in termini di facili speranze o emozioni catartiche.
L’attore / regista tunisino Abdellatif Kechiche, al terzo lungometraggio, viviseziona un intero nucleo famigliare, e insieme ad esso una storia che a malapena sussiste, frantumata in centinaia di primi piani, sguardi, allusioni, e, perché no, sapori. La macchina da presa tampina impietosamente i personaggi, senza risparmiare loro nulla, dal richiamo verbale ad una figlioletta disobbediente alle esplosioni di rancore provocato da un tradimento venuto alla luce. Senza alcun scrupolo, proprio come l’ossessione del regista per il “dettaglio”, che tocca punte feticistiche in un pranzo della durata di venti e passa minuti, durante i quali, se proprio dobbiamo ribadirlo, non succede granché. Ci si confronta semplicemente (sempre con la bocca piena ben in vista) sul prezzo dei pannolini, vengono lanciate piccole frecciate, si intrecciano sguardi ambigui e c’è spazio anche per scherzose confidenze piccanti. E magari più avanti troviamo una bizzarra danza del ventre interpretata da una ballerina dal fisico tutt’altro che statuario. Una manciata di scene frenetiche, ritmicamente ineccepibili, solo apparentemente improvvisate (e invece previste meticolosamente da una sceneggiatura dettagliatissima), e filtrate attraverso un’ottica che verrebbe da definire neorealistica.
Si tratta quindi di un film molto coraggioso, bisognoso di spettatori ugualmente intrepidi, aiutati da un montaggio serrato (forse l’aspetto prettamente tecnico più felice del film), che stempera il più delle volte la notevole durata complessiva (quasi due ore e mezza, con qualche caduta di tono nella parte finale). In definitiva, uno spaccato di vita pulsante, carnale, ma soprattutto quotidiana, febbrilmente umana, che a volte attraverso la messa in scena della sofferenza (e lo zampino di un abile regista) può addirittura finire per apparirci eroica.
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