La terra degli uomini rossi - Birdwatchers PDF 
Roberto Castrogiovanni   

ImageTerritori di confine, spazi “liminari”, persone dall’identità ambivalente: questo è il cinema di Marco Bechis. Una poetica che riflette forse la personale condizione di un autore in bilico tra due mondi, quello sudamericano e quello italiano, anche da un punto di vista cinematografico. Dopo il dittico di Garage Olimpo (1999) e Figli – Hijos (2001), dedicato alla incommensurabile tragedia dei desaparecidos e dei loro figli, Bechis continua con la stessa forza militante a dar voce a un ennesimo genocidio passato sotto silenzio. La terra degli uomini rossi è in un certo senso un’altra storia di desaparecidos, di individui che non trovano più posto in una società consumista e globalizzata. La tribù degli indios Guarani-Kiowà lotta per riprendersi il proprio territorio, ovvero quel che rimane della foresta del Mato Grosso, disboscata per far posto alle piantagioni dei fazendeiri. Le riserve concesse dal Governo brasiliano sono in realtà delle prigioni entro cui gli indigeni vivono confinati. Di fronte a una non-esistenza, l’unica alternativa è il suicidio di massa. Nàdio, il capo tribù, decide di riappropriarsi delle terre dei suoi avi, combattendo una lotta impari e disperata contro una ricca famiglia di fazendeiri.

Quello di Marco Bechis è un cinema del conflitto, che procede per contrasti antitetici e per coppie oppositive, quasi in un aggiornamento delle dicotomie marxiste: vittime e carnefici, sfruttati e sfruttatori, servi e padroni. Una visione sorretta da un solido impianto morale, che trova perfino il coraggio (oggigiorno rarissimo) di confrontarsi con l’ideologia, pur non eccedendo mai nel semplicismo e nel manicheismo. Il conflitto, in Bechis, si manifesta attraverso molteplici gradazioni e variabili, quasi a sfumare i contorni netti di una linea di confine. In Garage Olimpo un torturatore si innamora della propria prigioniera, in Figli – Hijos si afferma che anche i legami tra persone non consanguinee possono rivelarsi indissolubili. E in La terra degli uomini rossi, nonostante non venga mai messo in discussione il punto di vista degli indios, la realtà si presenta in maniera complessa, stratificata e problematica. Basta l’incipit del film a rendere conto del ribaltamento di prospettive cui lo spettatore è sottoposto: i birdwatchers del titolo (ricchi turisti desiderosi d’esotismo) osservano sulla sponda di un fiume gli “uomini rossi” in abito tradizionale, ma poco dopo si scopre che gli indigeni in realtà sono stati pagati per agghindarsi in quel modo e che nella quotidianità indossano vestiti moderni. Un esordio in qualche modo programmatico, che vuole scansare immediatamente ogni dubbio relativo al film: quello di Bechis non è un documentario (nonostante sia il frutto di numerosi anni di studio e preparazione), né un’opera folkloristica o etnologica. È, semmai, un’osservazione partecipante e partecipata, in cui il rigore della messa in scena va necessariamente a braccetto con lo sguardo umanista e simpatetico dell’autore.

Lo spazio gioca da sempre nell’opera di Bechis un ruolo essenziale nella rappresentazione delle dinamiche conflittuali tra personaggi. Neanche La terra degli uomini rossi fa eccezione, ma, rispetto alle opere che avevano trattato della tragedia argentina, si nota uno scostamento nelle direttrici spaziali. Garage Olimpo e Figli – Hijos, infatti, si sviluppano interamente nella dimensione della verticalità, sottolineando in particolare il movimento della caduta dal basso, che si trasforma in emblema della disumanità, della distanza e della violenza del potere. “Garage Olimpo finiva su un aereo. Anzi: giù da un aereo, quello dal quale venivano gettati - vivi - i desaparecidos. Figli – Hijos comincia nello stesso mondo, con qualcuno che cade giù. Non è destinato a morire, ma è comunque vittima della stessa mostruosità”, sintetizza alla perfezione Mauro Gervasini su Film Tv. Birdwatchers, invece, si dispiega quasi interamente lungo la linea orizzontale, quasi come un western classico, che fa dell’abbraccio salvifico con la vastità degli spazi e del contatto diretto con la terra la propria ragion d’essere. Una terra che, come avviene in una scena dal forte impatto emotivo, deve essere letteralmente “divorata” per essere compresa e posseduta fin nel profondo. Ma la distanza spaziale tra personaggi continua a essere mantenuta, questa volta sull’asse dell’orizzonte. Memorabile da questo punto di vista è la sequenza in cui la tribù giunge per la prima volta nel territorio dei fazendeiri. Gli indigeni sono ripresi frontalmente, ma i loro volti sono “tagliati” in orizzontale dai fili di ferro che circondano la proprietà, posti davanti la macchina da presa. Tra indios e coloni si frappone una linea di demarcazione insormontabile e irriducibile. Nonostante lo sguardo di Bechis sia pessimista, viene comunque lasciato un piccolo spazio aperto all’osmosi tra le culture. Proprio come avveniva in Figli – Hijos, in cui i due figli di desaparecidos imparano a conoscersi veramente solo quando esplorano l’uno il corpo dell’altro, anche in questo caso la scoperta del “diverso” non avviene attraverso il linguaggio, bensì tramite il contatto fisico, carnale (sia che si tratti della fugace relazione tra il giovane apprendista sciamano della tribù e la figlia dei fazendeiri, oppure del passionale incontro tra un’indigena e un guardiano della piantagione). La lingua, invece, diventa un fattore in più di divisione e di incomprensione. Mai come in questo caso è un peccato che gli spettatori italiani non abbiano la possibilità di vedere il film in versione originale. L’alternarsi tra idioma indigeno (parlato dalla tribù), brasiliano (usato dai fazendeiri e dai loro sottoposti) e inglese (la lingua dei turisti e degli uomini d’affari) diviene l’ulteriore manifestazione di una segregazione sociale in compartimenti stagni. Come avviene in tutta la filmografia del regista, la dimensione sonora nel suo complesso (incluso il contrasto tra musica classica extradiegetica e canzoni pop ascoltate alla radio dagli indigeni) è uno strumento impiegato per enfatizzare le stridenti situazioni conflittuali.

Nonostante la sceneggiatura sia più didascalica delle precedenti opere "argentine", La terra degli uomini rossi si segnala per il medesimo rigore visivo e per la stesso sguardo disincantato e lucido sulle tragedie umane. Un grido di dolore, ma anche di resistenza, lanciato nel deserto.  


TITOLO ORIGINALE: La terra degli uomini rossi - Birdwatchers; REGIA: Marco Bechis; SCENEGGIATURA: Marco Bechis, Luiz Bolognesi, Lara Fremder; FOTOGRAFIA: Hélcio Alemão Nagamine; MONTAGGIO: Jacopo Quadri; PRODUZIONE: Brasile/Italia; ANNO: 2008; DURATA: 108 min.

 


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