Volto e dialogo. La dimensione intersoggettiva nel cinema di Kiarostami PDF 
Enrico Maria Artale   

Nella maggior parte delle pubblicazioni dedicate al cinema di Abbas Kiarostami si è giustamente insistito sulle prospettive aperte dal regista nella direzione di un’etica della forma cinematografica. Se si è scritto meno sull’aspetto contenutistico, è perchè la classica distinzione tra forma e contenuto viene rimessa seriamente in gioco, rendendo quasi impossibile l’isolamento dei due termini. Tuttavia, cercherò un punto di partenza nei frammenti di narrazione disseminati lungo l’opera del regista, quasi a voler testimoniare che grazie alla complessità tutta vitale del cinema di Kiarostami, le vie percorribili sono sempre in eccedenza rispetto alle vie percorse.

La mia ricognizione nei paesaggi iraniani del regista inizia un po’ indietro con gli anni, ma non troppo; precisamente dal cortometreggio Il Coro del 1982. Non soltanto perché questo mi offre una maggiore originalità rispetto ad un'analisi dei film di maggiore successo, o perché è uno dei corti che, inserito nell’edizione speciale in DVD de Il sapore della ciliegia, gode di una certa visibilità nel panorama dei cortometraggi dell’autore, non sufficientemente conosciuti in Italia; ma soprattutto, e in modo assai più determinante, perché Il Coro, con la sua economia di mezzi, tempi, e narrazione, mette in scena con esemplare semplicità il punto su cui vorrei soffermarmi. È assolutamente necessario spiegare in breve la trama. Un anziano signore, debole di udito, torna a casa dopo una breve passeggiata; a causa del fastidioso rumore dei lavori in corso proprio sotto casa sua, si sfila l’apparecchio acustico, gesto che abbiamo già inquadrato come una sua abitudine. Nel frattempo, le sue nipotine sono uscite da scuola e sono arrivate sotto casa. Suonano il campanello, e ovviamente il nonno non sente. Le due bambine provano prima con dei sassi alla finestra, poi coinvolgono un numero sempre maggiore di compagne affinchè possano, urlando all’unisono, farsi sentire. Quando le bambine riunite sono veramente tante, al nonno arriva finalmente l’eco della loro cantilena; infila  l’apparecchio acustico, si alza, va verso la finestra e osserva, un po’ stupito, un po’ intenerito, anch’egli meravigliosamente bambino, l’insolito coro di voci bianche che si è formato davanti alla casa. La sottigliezza poetica del soggetto e delle immagini non hanno bisogno di commenti aggiuntivi. È evidente poi come l’autore de Il Coro sia un regista assolutamente padrone del mezzo cinematografico: lo dimostra in modo inequivocabile la maestria con cui Kiarostami affronta un aspetto per il quale sono famosi registi classici come Lang, Hitchcock o Bergman, ossia la capacità di ottenere la massima espressività e di sfruttare drammaturgicamente l’alternanza di vuoti e pieni sonori. Quest’alternanza diventa qui, in se stessa, il motore che spinge l’intera vicenda, essendo al tempo stesso indistintamente realtà ed espediente formale e narrativo; essa apporta un’ intensità drammatica inaspettata per la breve durata del cortometraggio e per la natura dell’ argomento.

Vorrei focalizzare l’attenzione su un particolare aspetto della breve vicenda raccontata nel film: le due bambine, di ritorno dalla scuola, suonano il campanello, ma non vengono ascoltate. Tirano alcuni sassi alla finestra, aumentano di numero, ma non vengono ascoltate. Diventano una vera e propria moltitudine, ma ancora non sono ascoltate. Ci sono due soggetti: un soggetto collettivo, le bambine, e un soggetto individuale, il nonno. Uno dei due soggetti parla, urla addirittura, ma non viene ascoltato. Questo soggetto sperimenta su di sé l’impotenza propria di chi non viene ascoltato; l’altro invece, seppur involontariamente, resta indifferente. Il primo soggetto tenta di provocare l’ascolto dell’altro attraverso l’intensificazione e la reiterazione della propria chiamata, ma questo non sortisce alcun effetto sul secondo soggetto perché a quest’ultimo è negata la possibilità dell’ascolto stesso: l’indifferenza non è il frutto di una scelta consapevole quanto piuttosto la sua situazione naturale. Ma ad un tratto anche chi è sordo sente. Solo un brusio indistinto, ma sufficiente per risvegliare la curiosità e rimettere il nonno alla propria responsabilità. Lo sforzo delle bambine viene premiato. Il nonno, indossato l’apparecchio acustico, finalmente le sente, le ascolta. Quel soggetto indifferente, rinchiuso nel suo universo muto, la cui imperturbabilità involontaria supera enormemente quella di qualunque volontà stoica, anche questo soggetto chiuso può aprirsi sull’altro, se da quest’ultimo è opportunamente chiamato; può ascoltarlo, e può osservarlo meravigliato; può in defintiva accoglierlo attraverso il suo intero essere sensibile.

La dinamica che ho evidenziato all’interno della vicenda è semplice: un personaggio parla, chiede, richiede, l’altro non risponde; così fino ad un istante decisivo in cui, la risposta inattesa, arriva. Uno schema: A chiama B, B non risponde. A richiama B un numero x di volte, B non risponde. A richiama B, B risponde. Formalizzato in questo modo questo meccanismo sembra perdere significato, ed è effettivamente così poiché esso può mostrarci qualcosa soltanto se mantenuto nel suo elemento, la vita. Uno sguardo su alcuni altri film di Kiarostami è proprio ciò che può tenerlo in questa dimensione vitale sempre affetta da contenuti determinati. Non ho assolutamente intenzione di ricondurre i diversi film ad uno schema comune, né di ritrovare in ciascuno di essi il medesimo svolgimento; mi interessa rintracciare una dinamica che possa fare da filo conduttore, e seguire di volta in volta la traccia che mi si presenta, attraverso tutte le sue sfumature e variazioni, che sole garantiscono l’autenticità di un particolare interessamento dell’autore per il tema evidenziato.

Nel film Dov’è la casa del mio amico? (1987), il primo della famosa trilogia, il piccolo protagonista Ahmad deve restituire il quaderno ad un suo compagno di classe. Per farlo dovrà chiedere prima il permesso, alla madre, poi le informazioni per trovare la casa dell’amico, ad altri adulti. Anche qui vi è un rapporto tra soggetti, in un certo senso speculare rispetto a quello presente ne Il Coro: un soggetto individuale è in rapporto con più persone, che possono essere considerati come il soggetto collettivo “adulti”, soprattutto in virtù della funzione drammatica di contrasto col protagonista, che li accomuna tutti. Senza forzature si può affermare che il soggetto individuale bambino non viene ascoltato dal soggetto collettivo: la madre, la nonna, il nonno, il fabbro Nemazadeh, l’artigiano e il padre, sono solo alcuni dei personaggi che restano indifferenti di fronte alle domande e alle spiegazioni del bambino, infantilmente ostinate e reiterate. Questi individui sembrano effettivamente sordi piuttosto che decisi a non ascoltare il bambino, impossibilitati a priori piuttosto che maldisposti, totalmente incapaci di dialogare, di comprendere. Lo stesso artigiano, costruttore di porte, che resta una delle fugure positive del film, non riesce ad aiutare il protagonista nella sua ricerca, perché tutto preso dalle sue finestre non tiene conto né di un possibile scambio di persone, nè del diverso passo del bambino, costituendo in definitiva più un problema che una soluzione. C’è da dire che la caratterizzazione dei personaggi adulti muta progressivamente nel corso del film, tendendo verso un graduale ammorbidimento: dall’atteggiamento severo ed ottuso del maestro e della madre all’inizio, si arriva, passando per l’ anziano artigiano, alle parole più comprensive della madre stessa alla sera, e al compiacimento del maestro l’indomani mattina. Ma per l’appunto non si tratta che di un ammorbidimento; di fatto Ahmad non viene mai ascoltato. Non c’è nessuno scambio tra il soggetto bambino e i soggetti adulti, nessuna apertura effettiva dei secondi sul primo; piuttosto il piccolo è costretto a rinunciare al suo intento, constatando che le persone più anziane di lui non hanno intenzione o non sono in grado di aiutarlo.

Prendiamo adesso in esame il terzo film della trilogia, Sotto gli ulivi (1994): non è difficile notare che dentro al complesso gioco narrativo che si instaura con i due lavori precedenti, la piccola vicenda di Hossein e Tahereh, per quanto anch’essa costituisca un rimando a qualcosa di precostituito, rappresenti forse un frammento di trama, un residuo di narrazione più tradizionale, in grado di chiudere l’opera. Ed è in questo spazio micronarrativo che posso rintracciare obiettivamente un percorso analogo ai precedenti: il contesto è qui quello più intimo, ma non per questo meno serio ed universale, della storia d’amore; il rapporto è adesso tra due singoli individui. Hossein è innamorato di Tahereh ed è deciso a sposarla, ma i suoi argomenti non convincono la giovane. Malgrado l’uomo si sforzi di mostrare l’inopinabile ragionevolezza che lo anima, motivando attraverso la realtà delle cose la buona sistemazione che offrirebbe questo agognato matrimonio, la donna non sembra assolutamente intenzionata a sposarsi. Non vi è in Tahereh il segno di nessuna reazione, ma solo indifferenza, quasi non stesse ascoltando le parole che le vengono rivolte. Benchè siamo tutti d’ accordo sulla ineccepibile libertà della ragazza di rifiutare la proposta, l’indifferenza del suo atteggiamento ci mette seriamente in imbarazzo, e suscita nello spettatore un'antipatia altrimenti ingiustificata. Anche qui qualcuno parla ad un sordo. Ma anche questo sordo si dimostrerà in grado di ascoltare. Quando Hossein rinuncia alla quiete della rassegnazione, e sollecitato dal regista ricomincia la sua cantilena matrimoniale, quando infine si decide ad abbandonare i sacchi e ad inseguire di corsa la giovane Tahereh, inaspettato e rigorosamente inudibile accade il dialogo. Anche se non possiamo ascoltare questo dialogo troppo intimo, sappiamo con certezza che Tahereh ha ascoltato Hossein; la ragazza chiusa nel suo silenzio si è aperta rispondendo alla domanda dell’altro. Che questa risposta sia poi positiva resta un fatto in parte ingiustificato, volutamente ingiustificato; possiamo solo adesso immaginare che il silenzio di Tahereh fosse molto più ricettivo di una sempice indifferenza, che la sua chiusura non è mai stata poi così ermetica. Ma queste sono ipotesi, la realtà è tutta nel riconoscimento reciproco che in parte chiude il film e in parte è già al di là del film stesso.

Anche in un film narrativamente e cinematograficamente così diverso come Dieci (2002) è possibile intravedere, sicuramente con minor evidenza, il tema che mi sta guidando nell’opera di Kiarostami; il bambino, figlio della protagonista, dichiara più volte di non voler ascoltare le spiegazioni della madre, e spesso si tappa le orecchie; è un gesto sicuramente significativo, ma insufficiente per poter dire che il film ruoti attorno a questo motivo, anche perché, di fatto, il dialogo tra i due personaggi è approfondito e costante, a differenza di quanto avveniva nei film precedentemente analizzati. Il bambino non vuole sentire le ragioni della mamma, ma non sembra affatto indifferente; il dialogo è spesso a senso unico, ma talvolta il piccolo, che è sempre coinvolto emotivamente, risponde alla madre e cerca di spiegare, violentemente e approfonditamente, il suo modo di vedere le cose. Non si può sostenere fino in fondo che tra questi due soggetti non vi sia uno scambio di pensieri. Ma se allarghiamo il nostro sguardo sulle altre donne che siedono nell’automobile, la situazione si fa più drammatica; il tema centrale delle conversazioni è il rapporto che queste donne hanno con gli uomini, rapporto che si complica personaggio dopo personaggio: la sorella vive tranquillamente la propria monotona vita di coppia; una prostituta espone la sua disillusione maturata proprio nei confronti di questa vita di coppia; una giovane donna subisce l’umiliazione di un inatteso rifiuto; un’amica della protagonista si dispera dopo essere stata abbandonata dal fidanzato. Il contesto di riferimento è in questo caso eminentemente sociologico: il rapporto centrale del film è quello che lega due soggetti collettivi, il mondo maschile e il mondo femminile. I dialoghi tra la protagoniste e le varie passeggere trattano indirettamente dell’argomento, e getta una luce fondamentale anche sui dialoghi tra madre e figlio; così in quest’ultimo si delinea sempre meglio la figura dell’adulto maschilista, chiuso, di mentalità retrograda, e non a caso il suo rapporto con la madre, con il susseguirsi delle scene, tende inesorabilmente verso l’indifferenza, verso un rapporto meramente utilitaristico (per i passaggi in macchina). Gli uomini restano chiusi di fronte alla realtà femminile, incapaci di comprenderla, perché non disposti a percepirla fino in fondo, sensibilmente. La critica alla società iraniana è immanente a questa straordinaria registrazione dell’ impossibilità storica di un’apertura intersoggettiva.

Ho cercato di riportare l’attenzione su di un tema: l’intersoggettività mancata; a volte improvvisamente realizzata nel finale, a volte inesorabilmente irrealizzabile. La possibilità di uno scambio intersoggettivo vero è immanente a questi film lungo il loro intero decorso, ma proprio in quanto possibilità; per quanto sia sufficiente solo un gesto, una parola significativa per il riconoscimento reciproco dei soggetti, che questo riconoscimento accada non è un fatto scontato. E anzi spesso non accade affatto. La parola resta non detta, non vi è risposta. Il mutismo o la sordità, tratti fondamentali di alcuni personaggi di Kiarostami, sono da intendersi filosoficamente, come una chiusura etica? Cerchiamo di porci fino in fondo questa domanda. Mutismo e sordità sono innanzitutto esclusioni, tra loro complementari, dall’ambito linguistico, quindi la chiusura è essenzialmente una chiusura linguistica. Infatti ciò che manca nei film di Kiarostami è sempre una risposta: le bambine non ricevono risposta, il bambino non riceve risposta, l’innamorato non riceve risposta, le donne non ricevono risposte. La risposta significativa, portatrice di conseguenze reali nel mondo della socialità, è ciò che mancando impedisce la congiunzione interpersonale tentata da un determinato soggetto, con una domanda. La relazione intersoggettiva nei film di Kiarostami si pone chiaramente in ambito linguistico, nel dialogo più che in ogni altra forma di relazione.

I film di Kiarostami hanno un rapporto peculiare con la narrazione: operano un significativo superamento dei “confini dello spazio letterario”, rimettendo il discussione il rapporto tra il tempo del racconto e il tempo stesso della vita, con notevole ampliamento delle possibilità narrative del cinema in generale. Ne deriva l’attezione del regista per soggetti in cui la trama, in senso tradizionale, è minima se non del tutto inesistente: spesso la storia sembra rarefarsi, assottigliarsi, assentarsi per lunghi periodi, interrompersi, diperdersi e disfarsi definitivamente. Gli avvenimenti perdono importanza, sono esclusi dall’economia narrativa, e si perdono nel fuori campo, vittime di ellissi o soltanto testimoniati a voce, indirettamente. E la ripresa cinematografica procede alla registrazione delle situazioni vitali ed emotive in cui non accade nulla se non la realtà di queste situazioni stesse, situazioni il più delle volte dialogiche. La trama quindi si dissolve e si risolve nel dialogo. Si potrebbe giustamente affermare che questo procedimento non è affatto estraneo alla letteratura novecentesca, ma il dialogo cinematografico, e in modo essenziale il dialogo nei film di Kiarostami è assolutamente più del dialogo nella letteratura, qualsiasi essa sia. Questo dialogo è visivo, dialogo eminentemente visuale perché essenzialmente affetto dalla viseità di chi dialoga. Non si può prescindere dal volto. E la descrizione letteraria di un volto, per quanto splendida, illuminante e approfondita, non sarà mai paragonabile ad un volto stesso, proprio perché la viseità ha nella visualità la sua condizione di possibilità. Così le parole nel film sono assolutamente visuali perché pronunciati dai volti che dialogano. È il volto stesso a dialogare, e quel dialogo acquista la sua forza perchè il suo viso è visibile, e quella visibilità conferisce profondità al dialogo stesso, una profondità del reale, non costruita, una profondità umana impensabile in letteratura. Certamente si può dire che Dieci, oltre ad essere tutte le cose che è, è anche uno studio di questo aspetto del cinema; le sequenze in cui i volti non sono mostrati, ne sono assolutamente una conferma perché la nostra curiosità e il nostro interesse di spettatore pagano cara questa scelta di invisibilità; ma siamo anche convinti che sia un prezzo giusto da pagare. Il desiderio di vedere un volto, rispettosamente negatoci, ci fa capire come senza quei volti il film avrebbe ben poco senso; il che dimostra come un film che potrebbe sembrare tutto risolto nel lavoro della sceneggiatura sia così irriducibile alla sua sceneggiatura. Ma anche tutti gli altri film vivono essenzialmente di volti, e l’attenzione del regista si posa sul volto di chi parla, sul volto di chi ascolta, sul volto di chi non ascolta, sul volto di chi non risponde, decidendo sempre di mostrarlo a fondo, o in alcuni casi di non mostrarlo affatto. Abbiamo osservato bene il volto di Hossein tutte le volte che spiegava le sue ottime ragioni matrimoniali a Tahereh, ma non lo vediamo quando riuscirà a convincerla. Dobbiamo “accontentarci” di due figurine. Il volto, che è fisicamente l’ insieme delle nostre aperture sull’ esterno e sull’ altro individuo, non ci viene mostrato proprio nel momento in cui l’ apertura, il dialogo, la vera intersoggettività è avvenuta. L’ intersoggettività si realizza nel dialogo e sul volto.

È interessante notare che nella storia del cinema questa connesione naturale tra parola e viso umano è stata oggetto di focalizzazione, intensificazione ed analisi, più nei monologhi che nei dialoghi. Bergman ad esempio è solito soffermarsi a lungo su di un volto quando vuole introdurre o concludere una sezione del film che ha analizzato particolarmente un personaggio piuttosto che un altro, quasi a delineare un confine tra soggetti differenti (si pensi al caso esemplare di Sussurri e grida); o in altri casi l’ attenzione sui volti che dialogano è ben lontana dal poter essere definita intersoggettiva, ma è piuttosto orientata all'analisi di un soggetto singolo (come in Persona, dove il dialogo è ripetuto due volte, prima con l’inquadratura di un volto, poi con quella di un altro, quasi a voler negare lo scambio, a separare l’ascolto dal discorso). Un altro esempio significativo è il lunghissimo monologo che precede il finale di La mamain et la putain di Jean Eustache, culmine dell’andamento solipsistico di tutto il film: il volto di una donna si rivolge alla camera e si espone verbalmente, con rara radicalità. Viso e soliloquio. Tutto il contrario in Kiarostami. Il volto non attira mai l’attenzione su un momento egologico, di ripiegamento riflessivo; il volto rinuncia a questa funzione classicamente identificativa, rinuncia a significare il soggetto in sé; il volto nel cinema di Kiarostami esprime sempre un rapporto verso un altro volto. Il volto è vòlto verso l’altro, è costantemente alla ricerca dell’altro, oppure ostinatamente chiuso con l’altro che lo cerca. A mio modo di vedere in questa connesione tra volto e dialogo è presente ua critica decisa al solipsismo, in generale. La storia, la trama narrativa, non si disfa qui in una soggettività interminabile, in un monologo che si autoalimenta come in alcuni romanzi di Thomas Bernhard. La narrazione, in senso classico, si perde sempre in un dialogo, o meglio nel reiterato tentativo di dialogare, nella tematizzazione della possibilità di uno scambio intersoggettivo.

 


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