Il pezzo mancante, chi era costui? Dichiaratamente il film si ispira alla saga della famiglia Agnelli, ma non si sofferma tanto sulla figura dell’Avvocato-gentiluomo, nonostante gli eriga fin da subito una cornice attraverso una serie di affettuose testimonianze di chi, dall’estero, lo vedeva come il simbolo dell’eleganza italiana poi sciupatasi, o di chi da Torino trovava “rassicurante” sentire i suoi giri in elicottero sopra le nostre teste, insieme a qualche intervento del personaggio stesso – come quando afferma che non credeva che gli americani avrebbero comprato più nulla in Europa –, quel che adesso la gestione Marchionne, costretto a modificare le condizioni di lavoro in violazione delle direttive sindacali per adeguarsi agli standard dei soci americani, drammaticamente smentisce.
A parte un po’ di pompa magna, i chiaroscuri del personaggio emergono di riflesso, tanto che c’è chi ha accusato di una certa indulgenza il 45enne documentarista Giovanni Piperno (il maggiordomo di Gianni, racconta l’autore, lo ha trovato “rispettoso”, e altri commenti dalla super-famiglia, che poco si è prestata alle sue indagini, non sarebbero arrivati). Pochi o nulli i cenni alle recenti vicende giudiziarie della casata (con la scoperta di capitali nascosti all’estero), ai rapporti coi grandi signori della finanza; un occhio, piuttosto, a tutta la dinastia nata intorno al magnate-leggenda, figlio di Edoardo e nipote di Giovanni, fondatore dell’azienda (grazie anche a una frode, racconta un aneddoto dopo i titoli di coda), fratello di Giorgio e del meno consistente Umberto, e padre di Edoardo, suo delfino deceduto suicida (ma c’è chi dubita) determinando la cessione dell’azienda al ramo Elkann. Alla scrittrice Lidia Ravera la struttura del film suggerisce un sapore “proustiano”, queste scintillanti o drammatiche vicende di famiglie viste da un salotto con un andamento etereo e sinuoso. La figura più interessante, oltre che più tragica, in questo panorama sotto il segno del “fascino discreto dell’alta borghesia”, è l’ultima, Edorado, la pecora nera che, eletta alla successione, dichiarava di preferire la ricerca spirituale ai valori del capitalismo e dei beni materiali, disinteressandosi alla realtà aziendale e dedicandosi ad imprese stravaganti. Difese pubblicamente l’astrologia, divenne amico del guru Sai Baba e dell’ayattolah Khomeini, si appassionò all’Islam fino a tentare una mediazione tra gli Usa e i guerriglieri musulmani. Fino alla spaventosa decisione, una notte del 2000, a 46 anni. Sarà la vecchia storia che “non tutte le ciambelle riescono col buco”? In realtà, veniamo a sapere, c’era già nella famiglia una tradizione di follia, scrupolosamente occultata e sottaciuta: chi sapeva di Giorgio, il poc’anzi menzionato fratello obliato, internato in manicomio e defunto nel 1965 all’età di 36 anni? Dimenticato volentieri, secondo una delle testimonianze, perché “lui sapeva tantissime cose, mentre gli altri due sapevano solo di esser degli Agnelli”. Il rimosso subdolamente emerge sotto la facciata di distinzione signorile, coi dolori privati abilmente truccati, il disagio per due personalità impotenti rispetto alla commedia pubblica cui erano stati deputati.
Ed è sotto il segno, caro ad Edoardo, dell’astrologia e dell’occultismo che il documentario suggerisce una stravagante chiave di lettura della circolare vicenda: Bert Hellinger, specializzato in costellazioni famigliari, spiegherebbe che se un defunto non viene abbondantemente compianto, l’esperienza della morte tragica e precoce ricadrà karmicamente su qualche altro membro della famiglia. Il film si cala in atmosfere losche e melmose, ma, rilevavamo, si perita di giudicare, non assolve né condanna; indaga piuttosto la dimensione dell’oblio, del rimosso, delle sensibilità ferite. E a parte il tentativo di far emergere questa circolarità, questa inquietante rete di rimandi, non segue una logica nel montaggio, procede per associazioni di idee, di reminescenze, di spunti, con qualche parentesi visionaria che esplicita il non detto della follia; e se la definizione di “proustiano”, adottata dalla sopracitata Ravera, pare forse eccessiva, le suggestioni del soggetto, che talora manca qui di ritmo, potrebbero fare da spunto a un’opera di finzione, tanto sanno di roboante quadro collettivo: chi si ricorda de L'orgoglio degli Amberson, dove il quesito se l’automobile e l’industrializzazione costituissero un’innovazione positiva rimaneva insoluto?
TITOLO ORIGINALE: Il pezzo mancante; REGIA: Giovanni Piperno; SCENEGGIATURA: Giovanni Piperno, Giuseppe Cederna; FOTOGRAFIA: Giovanni Piperno, Raoul Torresi; MONTAGGIO: Paolo Petrucci; MUSICA: Rinneradio; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2010; DURATA: 71 min.
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