Io non ho paura: Michele alla ricerca della maturità PDF 
di Anna Lupetti   

"Attento Michele, non devi uscire di notte" mi diceva sempre mamma. "Con il buio esce l'uomo nero e prende i bambini e li vende agli zingari".
Papà era l'uomo nero.
Di giorno era buono, ma di notte era cattivo.
Tutti gli altri erano zingari. Zingari travestiti da persone. E quel vecchio era il re degli zingari e papà il suo servo. Mamma no però. Mi immaginavo che gli zingari erano una specie di nanetti velocissimi, con le orecchie di volpe e le zampe di gallina. E invece erano persone normali.

(Niccolò Ammaniti, Io non ho paura, Einaudi, Torino 2001, p.92)

 

La paura è iniziazione alla vita. Mostri, streghe, fantasmi, esseri irreali popolano la fantasia dei bambini, sono i volti contro cui combattere per superare la loro sfida all'autonomia, per scongiurare la paura. Quando però i mostri assumono i volti dei propri familiari e camminano alla luce del giorno, mentre i bambini buoni sono condannati alla sepoltura nelle tenebre della terra occorre ancora più fantasia per riuscire a diventare grandi.La forza del romanzo di Ammaniti Io non ho paura sta nella capacità di dipingere quello speciale regno dell'infanzia dove convivono fantasia e realtà e grazie al quale il piccolo protagonista riuscirà ad affrontare una terribile prova. Le visioni reali si mescolano ai sogni e ai ricordi, i personaggi dei fumetti donano la forza di agire e i misfatti reali entrano nelle favole che accompagnano i rituali della sera.

Nell'omonimo film, per dichiarata scelta di Salvatores e dello stesso Ammaniti, sceneggiatore insieme a Francesca Marciano, tutta la dimensione onirica che percorre il romanzo viene sacrificata per esigenze di messinscena.
Ma se è vero, per dirla con Truffaut, che non esiste scena di un romanzo che non possa essere girata, è pur vero che, nello specifico caso in analisi, i cambiamenti apportati al romanzo riescono a restituire la dimensione psichica ed emotiva dell'infanzia e a rappresentare la fantasia e l'irrazionalità, dimostrando un vigoroso senso del cinema nella ben riuscita affermazione di un punto di vista forte delle inquadrature che tiene in pugno tutta la costruzione visiva del film.

 

Pensiamo al primo sogno descritto nel romanzo in seguito alla scoperta del nascondiglio dove è tenuto prigioniero Filippo. Michele fa un incubo che ha a che vedere con la morte e la rinascita: Lazzaro non vuole resuscitare e azzanna la gola di Gesù. Nel sogno si mescolano la paura dei mostri, i racconti fatti dagli adulti, e si introduce il tema della morte che ritornerà nei ricordi della nonna morta e negli incontri successivi tra i due bambini. Il film trasforma l'incubo in una sorta di breve racconto che parla di un bambino sepolto nella terra in mezzo a ossa, scheletri, buio. Poche parole che Michele ripete a se stesso in modo concitato, come nell'agitazione dell'incubo, e che riassume la paura della scoperta appena fatta, le paure più irrazionali legate al buio, la presenza di esseri malvagi, e il senso della morte legato alle immagini delle ossa e degli scheletri. La trasformazione che operano Salvatores e Ammaniti sposta il piano onirico su quello della veglia, in cui immaginazione e realtà sono ancora più compenetrate e l'incubo diventa la paura e il sottile piacere che deriva dall'atto del guardare.

L'occhio che guarda è l'occhio che domina la messinscena, il vero protagonista di questo viaggio verso la presa di coscienza, la capacità di discernere la giustizia dall'ingiustizia anche quando si presentano in modo confuso e la conquista della propria autonomia. È lo sguardo innocente che fruga tra le stranezze che incontra nei giochi quotidiani, che va alla conquista di spazi sconosciuti. È lo sguardo di chi vuole vedere nonostante la paura e di chi vuole aprire gli occhi a chi è stato costretto a non vedere.

 

La scelta di concentrare il punto di vista narrativo e visivo sull'evoluzione dello sguardo è programmaticamente presente fin dalla prima modifica che la regia e la sceneggiatura operano rispetto al romanzo e che riguarda la scoperta da parte di Michele del buco in cui è nascosto Filippo. Nel romanzo la scoperta avviene durante lo svolgimento di una penitenza in seguito a una gara fra amici. Michele deve salire al primo piano di una casa abbandonata, attraversarla e scendere da una finestra. Nel buttarsi giù dalla casa sente uno strano rumore sotto i piedi e scopre il nascondiglio, scorge il bambino nascosto ma viene interrotto dai suoi amici che lo chiamano. Il film conserva la descrizione dell'episodio della penitenza ma isola il momento della scoperta del segreto dal contesto dei giochi d'infanzia. In questo modo concentra maggiormente la narrazione sulla figura del protagonista accentuando il carattere di sfida all'autonomia e alla crescita che assume la sua avventura, laddove nel romanzo viene dedicato più spazio alle relazioni con i compagni di gioco. (Un altro segnale che sottolinea questa scelta di regia sarà la simbolica inquadratura del libro che Michele tiene sul comodino: "Imparare per crescere".)

La sequenza mostra i ragazzi che fanno ritorno a casa dopo che la penitenza è stata soddisfatta. La sorella di Michele si accorge di aver perso gli occhiali e Michele torna verso la casa a cercarli. Quando li trova si accorge di una tettoia posata sulla terra che occulta il nascondiglio. La ricerca di Michele è una chiamata allo sguardo: Maria non può vedere se non ha i suoi occhiali e gli occhiali rivelano allo sguardo di Michele un mistero che chiede di essere chiarito. Al di là della tettoia che copre il buco lo sguardo si ferma sul dettaglio di un piede di Filippo. Il montaggio veloce dei piani del dettaglio in avvicinamento amplifica il terrore dell'occhio che vede e fa precipitare l'azione nell'incubo.

L'irruzione della paura e della minaccia aggiunge al discorso filmico un dispositivo narrativo e scenico che permetterà al film di svilupparsi su due dimensioni semantiche e simboliche.
Da una parte, presente fin dall'incipit del film, c'è l'incanto di una natura primordiale, di una bellezza arcana e inquietante abitata da forze del bene e del male, che sono simbolicamente rappresentate da animali prede e predatori.
Dall'altra, la dimensione dell'irrazionalità e della paura messe in scena attraverso un uso sapiente dei dispositivi classici della costruzione del thriller.

 

Un paesaggio archetipico, luogo della psiche e dei conflitti umani, punto di partenza e contenitore di tutte le esperienze umane. Una fiaba-thriller che mette in scena l'esperienza "prima" del male, nella quale il protagonista, se seguiamo le categorie di Propp, affronta la sua missione, il suo ingresso nella vita, attraverso il dono di uno strumento magico: la capacità di vedere. Un dono di cui prende coscienza attraverso l'incontro con Filippo. Il volo di Michele che cade dalla bicicletta su cui è fuggito all'improvvisa apparizione del volto di Filippo è il momento che segna la percezione del dono. Una dissolvenza in nero ci chiude gli occhi insieme a quelli di Michele e l'inquadratura successiva ci mostra il dettaglio dell'occhio del protagonista che si apre: è il risveglio della razionalità, la volontà di intraprendere un percorso all'interno di uno spazio confuso, di capirne le leggi e di opporsi ad esse, se necessario. Michele spierà gli adulti con la paura e insieme la curiosità di chi si copre il viso con le mani ma si lascia aperto uno spiraglio. Uno sguardo impedito, inquadrato attraverso il profilo del tavolo della cucina, gli angoli delle pareti, che non permettono di vedere tutto ma quel tanto che basta per capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.

Lo sguardo che si impone di vedere è un cammino dal buio alla luce, dall'inganno alla consapevolezza come quello che Michele fa percorrere a Filippo per convincerlo che è vivo. Uscire dal buio e aprire gli occhi significa resuscitare alla vita come Lazzaro (Filippo vestito di una tunica bianca non ne è altro che il correlativo visivo).

Disobbedire ai genitori e affrontare la più paurosa impresa di salvare l'amico dalla morte è l'ultimo passo che Michele compie per sancire la sua vittoria sugli adulti. Il suo coraggio è come il volo del piccolo Gregory de Gli Anni in tasca di Truffaut, che cade dal balcone senza farsi un graffio, e che segna simbolicamente, come fa notare Paola Malanga, il trionfo dei bambini su quello degli adulti, la capacità di stare al mondo anche senza la presenza dei genitori, perché protetti dalla magia dell'irrazionale. (1)
In questo senso è molto significativa la scelta di chiudere il film con un finale diverso rispetto a quello del romanzo.

Se il romanzo si chiude sull'abbraccio fra Michele e il padre, escludendo qualunque altra presenza, il finale del film mette in campo la separazione fra il mondo del padre e degli adulti e quello dei due bambini. Salvatores accentua il cinismo degli adulti con la presenza di Sergio che vuole portare a termine il suo efferato progetto e amplifica l'unione dei due bambini con l'apparizione di Filippo sulla scena. I due bambini sono ormai inscindibili, come il destino che li accomuna, come la paura che hanno superato insieme, come quella linea simbolica che unisce la mano tesa dell'uno verso la mano tesa dell'altro.

(1) Paola Malanga, Tutto il cinema di Truffaut, Baldini&Castoldi, Milano 2001, pp. 412-13

 


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