I primi, curiosamente anacronistici venti minuti de Il grande e potente Oz ci raccontano bene quale sia una delle strategie della Disney di oggi (accanto all’animazione, al mondo Marvel e a quello appena acquisito di Star Wars). Il grande e potente Oz inizia in bianco e nero, con lo schermo a 4/3, ma è in 3D (e per questo è anacronistico, perché i film in bianco e nero degli anni Trenta non si vedevano certo in stereoscopia): la Disney ha scelto di mescolare il passato e il futuro. Di riprendere, cioè, l’heritage di grandi storie classiche e di farne film nuovi, con nuove storie ma ambientati in quello stesso immaginario. Che però non siano semplici remake. L’operazione de Il grande e potente Oz è simile a quella di Alice in Wonderland di Tim Burton. Se in quel caso la storia era un sequel, raccontava cioè il ritorno di Alice nel “sottomondo”, Il grande e potente Oz è in pratica un prequel de Il mago di Oz di Victor Fleming, e racconta come Oscar Diggs, detto Oz (James Franco), mago sì, ma nel senso di illusionista/ciarlatano, venga trasportato da un tornado su una mongolfiera nel regno di Oz, un mondo parallelo, dove viene creduto il mago miracoloso annunciato da una profezia. Tra streghe buone e streghe cattive, si troverà a lottare per la libertà del popolo di Oz. Anche grazie all’arte dell’illusionismo.
È illusionismo anche il cinema, in fondo. E Il grande e potente Oz punta prima di tutto a stordire visivamente avvolgendo lo spettatore in ambienti incantati, come Alice in Wonderland di Burton e come Avatar (lo scenografo è lo stesso, Robert Stromberg). Così, il film di Raimi colpisce subito sfruttando e reinventando gli scenari al technicolor caramellato de Il mago di Oz. Ma se Alice in Wonderland era la reinvenzione di un film Disney, la casa di Topolino non ha i diritti de Il mago di Oz (mentre quelli dei libri, con le storie precedenti a quella, erano liberi). Quindi, mettetevi il cuore in pace, niente scarpette rosse, niente spaventapasseri, niente omini di latta (anche se, dalla storia, capiremo come sono nati questi personaggi). Il che equivale un po’ a fare un film su Alice senza lo Stregatto o il Cappellaio Matto. Insomma, il lavoro di Raimi è in salita. Ma il regista ci mette del suo. Se la storia è fin troppo semplice, Raimi usa male le suggestioni del classico di Fleming e sfiora troppo spesso il cattivo gusto, il kitsch, la baracconata. Certo, il protagonista in fondo viene da un circo… Gli attori sono diretti male e usano una recitazione affettata, una sorta di recitar declamando. Visto che anche gli effetti speciali arrivano a un risultato deludente, non si capisce se Raimi abbia voluto che tutto, dagli attori alle immagini, avesse un effetto rètro, o se il film gli sia semplicemente sfuggito di mano. In ogni caso, il risultato non è all’altezza delle attese.
Come non lo era stato, almeno artisticamente, quello dell’Alice in Wonderland di Burton, con il talento del maestro troppo imbrigliato dalla linee guida di una produzione mastodontica. Insomma, quella formula magica nata dall’incontro tra un prodotto storico e cinema d’autore, che era riuscita benissimo proprio a Burton e Raimi, nei loro comic movie (curiosamente entrambi centrarono il capolavoro con il secondo capitolo, Batman Returns e Spider-man 2), non funziona in questo tipo di film, legati alla reinvenzione di film storici. Sarà per le linee guida troppo ferree in cui bisogna muoversi per produzioni di questo tipo? Sarà per l’alone di magia irripetibile che circonda due classici come Alice nel paese delle meraviglie e Il mago di Oz? O forse, semplicemente, un certo mondo edulcorato non è adatto a due outsider come Raimi e Burton, che nel mondo dei fumetti avevano invece trovato più spunti per la loro poetica.
|