Non è ancora domani (La Pivellina) PDF 
Giulia Palmieri   

Il realismo di herzoghiana memoria che impregna la super 16millimetri di Non è ancora domani sembra confermare il sentiero su cui Tizza Covi e Rainer Frimmel hanno deciso di incamminarsi dai tempi di Babooska. Non un documentario, non una fiction: è questo il segreto della delicatezza di una storia che potrebbe essere reale, ma che di fatto non lo è, o per lo meno non completamente.

A distanza di cinque anni da quel secondo lavoro insieme, è ancora una volta il circo il naturale burattinaio delle esistenze presentate sul grande schermo: Patti (Gerardi) è un’artista di strada che assieme al marito Walter (Saabel) improvvisa spettacoli in quel di San Basilio, alla periferia di Roma. Le vite nomadi dei due scorrono tranquille nel naturale grigiore di uno sfondo spoglio e umile, dove il degrado irrompe a sprazzi e la diffidenza regna sovrana. Eppure un giorno, Ercole, il cane, fugge al di là del recinto di lamiere in mezzo a cui la loro roulotte è incastonata e Patti, con l’apprensione di chi teme di aver perso qualcosa di caro, si mette alla sua ricerca vagando tra parchi e sobborghi. Troverà qualcosa di più prezioso: una bimba in rosa che riaccende in lei un irrefrenabile istinto materno. “Aia” (così ci viene presenta) è rimasta a penzoloni su un’altalena, abbandonata, o forse solo momentaneamente parcheggiata in attesa di tempi migliori. Patti aspetta, e quando nessuno si fa avanti decide di portarla con sé nel suo mondo clownesco, dove non vi è confine netto tra malinconia e serenità. La razionalità contrariata di Walter (“Avresti dovuto andare alla polizia”) viene subito azzerata dal sorriso sdentato di Asia (questo il nome ricostruito a partire dai versi caratteristici di chi ha solo due anni), la quale non sembra soffrire troppo dell’improvvisa scomparsa della madre. Merito di Tairo (Caroli), adolescente e temporaneo fratellone che preferisce trascurare la partitella di calcetto e mollare la ragazza pur di giocare con la sua nuova “pivellina”. Tutti insieme si faranno travolgere da questa “mina vagante”, esplosiva almeno quanto la Verdun di Pennac, nel ciclo dei Malaussène, in  un climax  di suggestioni e situazioni a loro modo normalmente straordinarie.

Non c’è macchinazione alcuna nella recitazione dei personaggi, che infatti non sono attori professionisti. Ed è proprio la spontaneità della conversazione, i dialoghi sporcati dal sovrapporsi di voci, che consente al film di non perdere la sua genuinità. La realtà resta protagonista assoluta della pellicola, che dimentica i dolly e la raffinatezza dell’immagine in favore di una presa diretta e soggettiva in cui l’inquadratura appare raramente ferma e forse volutamente amatoriale. La rinuncia alla luce artificiale contribuisce a dare forma ad una fotografia grezza, eppure mai grossolana, scelta coraggiosa per due registi che, prima di essere tali, sono soprattutto professionisti dello scatto. Asia è la primadonna di questo teatrino circense in cui gli spunti comici non sembrano mancare: l’obiettivo cattura lo show dei suoi gesti, l’ostinazione bambina, i capricci e la storia che si celano dietro ai suoi occhi ingenui. Il pubblico non ha modo di comprendere il motivo dell’abbandono, soltanto Patti sa, avendole trovato addosso una vaga garanzia genitoriale: “Tornerò a riprenderla”. Eppure, quello che potrebbe trasformarsi in un dramma moderno si rivela invece un pretesto per sorridere. La quotidianità viene riscoperta. Mangiare, dormire, andare al supermercato si trasformano in azioni dall’inedito potenziale narrativo. Ogni scusa è buona per raccontare le difficoltà di un pugno di vite al limite (della società fisica, ma anche del pregiudizio), che grazie ad un evento inatteso si riscoprono e mostrano al mondo il meglio di sé. L’attesa è l’altra grande protagonista del film. Per metà sollievo, per metà ansia, essa costituisce il tormento di Patti, che rimane sospesa nella sua indecisione: è consapevole di come sia meglio sperare in una rapida risoluzione dell’intreccio, ma non può negare di nutrire l’egoistica speranza di potersi fingere madre per sempre.

Non è ancora domani ha fatto tappa presso alcuni fra i più prestigiosi festival internazionali, tra cui quelli di Berlino, Toronto e Cannes, dove nel 2009 ha conquistato il premio Label Europa Cinemas come miglior film europeo nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. La coppia Covi-Frimmel ricalca dunque il percorso già tracciato con Babooska (in cui tra l’altro Patrizia Gerardi e Walter Saabel erano già comparsi) e Das Ist Alles, e sembra non voler cambiare registro per la prossima opera, ad oggi ancora in fase di montaggio, sulla vita dell’attore austriaco Philipp Hochmair. Ogni prodotto di questo sodalizio artistico prende forma da progetti fotografici nati e sviluppati all’accademia di Vienna, dove i due hanno cominciato a gettare le basi per le loro trame al limite, nelle quali sono le idee ad adattarsi alla realtà e non il contrario. Lo stesso spunto iniziale di questo loro ultimo lavoro scaturisce dai numerosi fatti di cronaca che sempre più spesso ritraggono un Paese, il nostro, costellato di abbandoni. Non è ancora domani nella sua delicatezza essenziale riesce a raccontare la relazione tra infanzia ed età adulta senza retorica alcuna ed offre al panorama cinematografico italiano un’imbeccata circa la possibilità di osare, pur pagando lo scotto di una distribuzione limitata nel circuito tradizionale.

TITOLO ORIGINALE: La Pivellina; REGIA: Tizza Covi, Rainer Frimmel; SCENEGGIATURA: Tizza Covi; FOTOGRAFIA: Rainer Frimmel; MONTAGGIO: Tizza Covi; PRODUZIONE: Italia/Austria; ANNO: 2009; DURATA: 100 min.

 


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