Katyn: il ritorno di Andrzej Wajda PDF 
Umberto Ledda   

Tre settimane dopo l'invasione tedesca della Polonia, da Ovest, l'Unione Sovietica invase il paese da  est in seguito all'accordo fra nazisti e sovietici noto come patto Molotov-Ribbentrop. C'era anche un patto di non aggressione fra Urss e Polonia, ma queste cose, decretate in previsione di una guerra, quando la guerra c'è davvero non contano più: e del resto lo stesso accordo segreto fra nazisti e sovietici non era molto di più di una falsa stretta di mano in attesa del momento giusto per attaccarsi a vicenda, da entrambe le parti. Su scala mondiale, la doppia invasione segnò la generalizzazione del conflitto: Francia e Gran Bretagna erano legate alla Polonia e dovettero intervenire contro la Germania, generando l'effetto a catena che nei successivi sei anni mandò all'aria la geopolitica mondiale e con lei le illusioni di civilizzazione degli umani. Sul piano locale la spartizione della Polonia, attaccata su due fronti diversi, ebbe tra gli effetti la cattura di buona parte dell'esercito e dei suoi ufficiali, che i sovietici deportarono in alcuni campi di prigionia. La mossa successiva fu semplice e a suo modo razionale. In Polonia, ogni laureato partecipava alla leva come ufficiale di riserva: i gradi dell'esercito costituivano la totalità della classe istruita polacca. Eliminando gli ufficiali, la Polonia sarebbe stata decapitata della sua classe dirigente per una intera generazione, rendendo il controllo sul paese irrisoriamente semplice.

Nella primavera del 1940 più di ventimila persone (ottomila ufficiali, soldati, secondini, guardie, poliziotti e gendarmi) vennero uccise, una per una, in gran parte nella foresta di Katyn. La guerrà andò avanti e il trattato di non aggressione fra Urss e Germania si rivelò per quel che era. Quando l'Unione Sovietica si alleò con la Gran Bretagna (e quindi con il popolo polacco), Stalin dichiarò che i prigionieri polacchi erano stati liberati. Due anni dopo, quando i tedeschi rioccupata la Polonia scoprirono le fosse e i corpi, non parve loro vero di utilizzare la notizia del massacro a scopo propagandistico contro il nemico comunista, di fronte ai suoi stessi nuovi alleati, contribuendo non poco a destabilizzarne l'immagine: lo stesso Goebbels lasciò scritto come il massacro di Katyn fosse stato una delle più grandi vittorie della propaganda del Reich contro il nemico comunista. Altri due anni dopo, una volta che l'Unione Sovietica riprese il controlla dell'area, si decise di ritoccare la realtà e di incriminare i tedeschi per il massacro, posticipandone la data e mettendo a silenzio chiunque osava insinuare dei dubbi. La prima ammissione di colpevolezza da parte russa avvenne dopo la fine dell'Unione Sovietica, nel 1990: dopo che la menzogna aveva smesso di essere conveniente, e conveniva invece, per il fine utilitaristico del nuovo corso, fare ammenda sugli orrori della vecchia gestione e dichiarare finalmente una verità che tutti sapevano.

Questo è il contesto in cui si muove Katyn, il film. Andrzej Wajda sceglie una via doppia per raccontare una vicenda intorno a cui si coagulano l'odio antisovietico polacco e l'ossessione per l'orrore del ventesimo secolo: da una parte la storia del massacro, delle giravolte della verità e degli usi che ne fecero i ciclici occupatori della Polonia. La cronaca della Storia, quella degli eserciti e delle decisioni che vanno a finire sui libri. Dall'altra le storie lontane delle donne polacche e dei singoli individui, a cui per anni fu impedito di sapere una verità così sgradevole da essere utilizzata dai diversi occupanti come strumento di attacco e lotta politica. Da una parte le storie degli individui e la loro verità, dall'altra le verità dei regimi, quelle che costruiscono la Storia ma molto di rado sono effettivamente accadute nei termini in cui vengono tramandate. Di questa necessaria doppiezza, Katyn subisce le conseguenze nella struttura, che alterna momenti didascalici su una vicenda ancora abbastanza sconosciuta da dover essere illustrata, anche in patria, alle storie personali e singole, che ne sono il perno tragico. È una doppiezza molto esplicita, che se da una parte garantisce una riproduzione estremamente chiara (e sorprendentemente poco retorica) del contesto geopolitico del massacro, dall'altra sembra azzoppare le vicende personali, impedendo il loro fluire. Sono storie disgregate, spezzettate, dove i personaggi compaiono e scompaiono ingoiati dagli eventi. I personaggi sono molti, ed è indicativo che praticamente nessuno sopravviva per tutto l'arco temporale del film, che va dall'invasione russa della Polonia all'immediato dopoguerra. Nella prima parte c'è Andrzej, ufficiale imprigionato che trascrive tutto ciò che accade su un taccuino per lasciare una traccia dell'apocalisse che lo sta travolgendo a sua insaputa. C'è sua moglie Anna, che combatte tra la speranza in un miracolo e la sempre maggiore consapevolezza della tragedia, che vorrebbe rifiutare ma non può. C'è la madre di Andrzej. C'è un generale, ci sono sua moglie e la figlia. C'è Jerzy, uno dei pochi ufficiali che furono risparmiati a Katyn, diventato collaboratore dei russi per sopravvivenza e stritolato dal suo stesso gesto. Quando la guerra finisce, alcuni dei personaggi della prima parte del film sono vivi, altri no: c'è un ragazzo che ha fatto la resistenza e non può accettare le coperture sovietiche, c'è una ragazza anche lei ex resistente che vuole onorare il fratello morto con una lapide che porta la data reale del massacro e che per questo non può essere mostrata.

Sono personaggi a cui la Storia impedisce anche solo di avere una vera esistenza, che compaiono, tentano di sopravvivere fisicamente e moralmente, in un mondo dove i due tipi di sopravvivenza non possono essere portati avanti contemporaneamente. Entrano ed escono dal film senza aver avuto la possibilità di portare a termine un progetto, senza che la loro presenza abbia potuto essere significante, se non come un monito, una sfida, una testimonianza: la disgregata e spezzata coralità di Katyn, così poco attraente dal punto di vista spettacolare, è la chiave del suo realismo. Molte delle sottotrame personali sono troncate a metà, contro ogni convenienza cinematografica: ci sono storie d'amore che terminano fra il sangue in una strada, storie di redenzione che finiscono senza lasciare il tempo alla redenzione, ci sono attese lunghe anni, che non trovano conclusione. Katyn è un film corale dove le vicende singole non riescono mai ad interagire completamente, non riescono a farsi affresco, perchè al di sopra delle loro esistenze c'è qualcosa di più grande ed orrendo, un massacro di esseri umani caduto nelle mani della Storia e la mani della Storia sono sempre quelle sbagliate, un massacro che impedisce ai singoli di compiersi, nel bene o nel male. Il film di Wajda diventa quindi il racconto a brandelli di una patria che non riesce ad essere tale, di un popolo, quello polacco, che ha passato l'ultimo secolo occupato da padroni troppo grandi, e che ha visto le sue rivolte, per quanto coraggiose, spegnersi nel sangue. Una nazione a cui non è stato concesso nemmeno il ruolo di vittima, a cui non è stato concesso piangere o amare o tutte quelle cose che gli esseri umani fanno, costretta per motivi geografici, politici e storici a far parte della Storia senza che i suoi abitanti lo avessero richiesto.

La tragedia innesca tutta una serie di drammatici quesiti morali nei suoi impotenti interpreti. Jerzy, l'amico fidato di Andrzej e suo compagno di prigionia, sopravvive al massacro di Katyn solo indossando la divisa degli uccisori. Tornato in patria, vivo, si rende conto che la sua stessa sopravvivenza è motivo di disprezzo. La vita in cambio del tradimento. Jerzy concluderà la sua parabola con un gesto tanto etico quanto completamente inutile per sé e per gli altri. Agniezka, giovane ex combattente partigiana, ha una lapide per il fratello ucciso a Katyn, che riporta la vera data del massacro. Una verità così scomoda che la semplice esposizione della lapide potrebbe portare alla morte di molte persone. La verità in cambio dell'infelicità di sé e di altri innocenti. Agniezka finirà male, la lapide finirà distrutta, senza aver potuto assolvere alla sua funzione di monito. Wajda non può e non vuole risolvere questi dilemmi troppo grandi per chiunque: se ne parla, se ne discute, ma poi le cose accadono senza che queste discussioni le possano influenzare. Guardando Katyn non c'è speranza di avere un'indicazione se sia più etico scegliere la vita o la propria integrità, né se la verità vada sempre mostrata anche a costo della morte altrui: sono domande che rimangono domande, poco più che parole, e il loro unico risultato sembra essere creare la sofferenza di chi se le è poste. Le azioni che scaturiscono da questi temi morali non riescono, in Katyn, a influenzare davvero gli eventi e il fluire della storie. È solo la manipolazione violenta del potere a farlo, che dell'etica è negazione totale. Anche dal punto di vista dei temi etici su cui è imperniato, il film di Wajda risulta impermeabile alle logiche della narrazione. Troppo forte il potere, troppo implacabile la sua azione sugli esseri umani perchè questi possano compiere percorsi significanti.

Il film lascia in vita chi tace e chi crede. Chi non fa nulla. Gli esseri umani, le loro storie, non possono cambiare la Storia: la loro unica possibilità, eliminate quelle del compimento personale o dell'attiva partecipazione agli eventi, è la testimonianza, come Andrzej, o la comprensione, come quella della moglie. A patto che dimentichino o tacciano ciò che hanno visto o saputo, oppure che muoiano.  Anche cinematograficamente, l'unico ruolo possibile ai personaggi è lasciare tracce per un futuro indefinito, senza sperare per se stessi nè per la propria lotta. Da questo punto di vista Katyn è una dichiarazione di impotenza, ma di impotenza non superficiale e rinunciataria. Se da una parte il suo compito è quello di raccontare una verità che ancora non era stata abbastanza raccontata, dall'altra il film sembra dimostrare l'impossibilità di raccontare con gli strumenti della narrazione un evento di questa portata, di farci spettacolo, di intrattenere. Sono storie nate morte, significati che si perdono nella sofferenza prima di aver assolto il loro compito di illuminazione. In un film doppio, che prova a raccontare contemporaneamente la Storia e le vicende degli umani che ne fanno parte in qualità di pedine, la prima ha il totale sopravvento.

E allora Wajda fa un passo indietro, e negli ultimi minuti del suo film abdica dalla parola e dalla narrazione comunemente intesa, e lascia defluire le immagini in un orrore senza spiegazioni né significati, dove lentamente le parole, le domande su che senso abbia ciò che accade, si spengono, e rimangono le immagini nude della tragedia e del massacro. Il finale di Katyn rinuncia a cercare o a dare senso, e semplicemente mostra il metodico processo di eliminazione degli esseri umani. Rimane qualche preghiera e qualche sparuto simbolo religioso in mezzo al sangue e ai cadaveri coperti di calce e terra, poi le stesse immagini scompaiono e l'ultimo minuto è nero, accompagnato dall'Agnus Dei di Penderecki. Nello spegnersi del cinema, in quella che sembra una resa agli eventi, si trova invece per la prima volta un segno di acquisita consapevolezza, nel momento in cui Katyn smette di essere spiegazione tramite narrazione, e diventa finalmente tentativo di testimonianza pura.

 


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