Il cinema di John Milius PDF 
di Domiziano Pontone   

Volendo suddividere gli anni '70 secondo una scansione dettata in base ai registi esordienti – o impostisi artisticamente – simbolo di quel decennio, potremmo giungere a una conclusione non definitiva ma certamente significativa.
Da un parte troveremmo Steven Spielberg (Duel, Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo) e George Lucas (American Graffiti, Guerre stellari), dall'altra Martin Scorsese (Mean Streets, Alice non abita più qui, Taxi Driver) e Francis Ford Coppola (Il Padrino, La conversazione, Il Padrino - parte II, Apocalypse Now) e infine Michael Cimino (Il cacciatore) e John Milius (Il vento e il leone, Un mercoledì da leoni).
Spielberg e Lucas hanno rappresentato la fantasia e lo spirito dello storyteller conditi di effetti speciali, Scorsese e Coppola il virtuosismo registico e la critica sociale in salsa italoamericana, Cimino e Milius la sconfitta delle illusioni e il trionfo del reazionarismo.

Fra tutti questi John Milius è stato, sorte in parte condivisa con Cimino, lo sceneggiatore di maggior talento e il cineasta meno fortunato al botteghino. Subito dopo, accanto a questo duo, potremmo citare Walter Hill, un altro regista con aspirazioni autoriali che ha dato il meglio di sé nel medesimo periodo (e col quale Milius stesso ha collaborato per Ricercati: ufficialmente morti e Geronimo).

Prima di potersi cimentare dietro la macchina da presa, Milius si occupa degli script di Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, L'uomo dai sette capestri e Una "44 Magnum" per l'ispettore Callaghan, tutti film di successo grazie alla mano felice dei registi (Pollack, Huston, Post), ma sorretti anzitutto da sceneggiature di ferro.

Con Dillinger Milius si fa conoscere dal grande pubblico anche in qualità di cineasta. Come in seguito nei suoi film più maturi, già in quest'opera prima (se si eccettua il timido tentativo di sei anni prima, Marcello, I'm So Bored) si evincono alcune delle tematiche predilette dall'autore: il senso dell'onore, il rispetto reciproco che domina i rapporti tra i contendenti, la sincerità che sembra permeare l'animo dei personaggi.
Ma Milius non si ferma qui. La sua è una cosmogonia imperniata su uno struggente umanesimo e su un panteismo latente. Per dar sfogo a questa sua visione, tutte le sue pellicole successive vedranno protagonista, accanto all'uomo, la natura e i suoi elementi.
Il vento e il leone (1975) si svolge nel Sahara, Un mercoledì da leoni (1978) si dimena tra le onde dell'oceano, Conan il barbaro (1981) vaga tra lande primitive e desolate, Alba rossa (1984) abbandona la città per la montagna, Addio al re (1988) è ambientato nel Borneo, L'ultimo attacco (1991) ripercorre i sentieri vietnamiti e Rough Riders (1997) sbarca su un'isola caraibica.
La visione parareligiosa di Milius parte dall'uomo visto come centro e misura di tutte le cose – sembra di intendere l'assioma di Protagora di Abdera – per poi immergere l'essere stesso nel flusso della natura. Il contatto tra i due può essere traumatico ma è proprio da questo incontro/scontro che ne esce sbalzato l'eroe a tutto tondo.

Quest'importanza del territorio e della wilderness può essere sostanzialmente spiegata da una frase del quasi coetaneo Cimino (autore con lui della sceneggiatura di Magnum Force): "Il paesaggio è un attore del film, agisce sullo spettatore anche se lui non se ne accorge". Nel caso di Milius, anche sul regista e sulle sue scelte.

Trovano, così, una dimensione epica le ondate di Big Wednesday (quel "big" racchiude in sé il senso dell'impresa), le praterie sconfinate da affrontare a cavallo di Conan the Barbarian, le montagne innevate del Colorado in Red Dawn (l'alba è un segno di rinascita, di resurrezione), le foreste pluviali dominate dal bianco Nolte nello struggente Farewell to the King.
Tale tesi è rafforzata da una frase che il cineasta fa dire a un guerriero di Conan il barbaro. Alla domanda: "Qual è il meglio della vita?" l'interpellato risponde: "La steppa immensa, un veloce cavallo, falchi sul tuo polso e il vento che ti stordisce". Epocale.

In un'intervista di un anno fa, rilasciata a Kenneth Plume per "FilmForce", Milius ha affermato che i suoi film preferiti sono Sentieri selvaggi e I sette samurai e che il suo libro prediletto è Moby Dick: questi capolavori si possono accostare perfettamente all'indole del regista. Tutti e tre, infatti, focalizzano al centro dell'attenzione la natura, l'uomo e l'epica. Tutti e tre conservano in un finale pieno di sconfitta il segreto della vittoria: l'aver combattuto.

Milius non ha perso la fiducia in Dio, ma preferisce affidarsi alla sole forze dell'essere umano. Dio non è scomparso, ma sta seduto e guarda cosa fa l'umanità che ha creato. Questo concetto è ben sintetizzato da un'affermazione del Conan di Arnold Schwarzenegger, riguardante la sua primitiva religiosità. Alla domanda se e chi prega, il cimmero risponde: "Krom, ma solo raramente. Lui non ascolta".

Nel corso della sua carriera il cineasta ha sempre cambiato i collaboratori, dal cast ai tecnici, ma l'unico che ha resistito, da Big Wednesday in poi, è stato il compositore Basil Poledouris, un musicista potente ed evocativo, quasi wagneriano. Per pellicole così intense era necessario un accompagnamento che rimandasse agli echi nietzschiani. Poledouris dona alle immagini la grinta da Superuomo di cui hanno bisogno: a uscire trionfatrice non è la figura vincente alla fine della battaglia, ma la volontà di potenza espressa dagli antagonisti.
Quest'esigenza miliusiana, la necessità di forgiare l'uomo dalla stessa fùsis, si evince anche dalla rapida analisi dei titoli dei film sceneggiati e/o diretti dal filmaker, laddove spesso il nome dell'uomo perno della vicenda emerge e s'impone subito. Si possono citare The Life and Time of Judge Roy Bean, Jeremiah Johnson, Dillinger, Conan the Barbarian, Geronimo.

Conta l'eroe: tutti i personaggi succitati, a modo loro, magari anche sconfitti, lo sono. L'epopea nasce dalla lotta coi propri simili o con gli elementi, ma rimane sempre l'atto memorabile. Nulla è scontato, tutto è incerto sino alla fine, l'unica certezza è che lo scontro sarà titanico e che il tempo renderà immortale le gesta dei contendenti.
Lo sguardo del regista di Saint Louis è partecipe, ardente, ma anche consapevole delle amarezze che la vita sa riservare. Harry Callaghan compie il proprio dovere conscio di non essere apprezzato, Roy Bean vede spegnersi l'epoca che lo ha visto primo attore, Jeremiah Johnson fallisce con gli Indiani, John Dillinger non sfuggirà al proprio destino, i tre surfisti si ritrovano sempre più vecchi e – forse – delusi, i partigiani antisovietici sopravvivono in minima parte (e a caro prezzo) alla rappresaglia, il re biondo Learoyd percepisce l'impossibilità della libertà per sé e per il suo popolo adottivo, la missione aerea suicida è l'ultima spiaggia per dar senso a una vita che ha riservato disillusione e dolore.

Dietro l'ispirazione di Milius si celano le Muse omeriche e contemporaneamente quelle tragiche dei classici greci: il suo cinema è una summa gestarum, il respiro che ritma le sue riprese è quello affannoso del soldato di Maratona, che muore per l'impresa ma rinasce per la gloria. Chi assiste a un film del Nostro non può non percepire la profonda convinzione e partecipazione dell'autore stesso. Milius è uno che crede in quello che fa, anche a costo di lunghe pause di lavoro dovute alla mancanza di finanziatori (direi quasi di mecenati, data la statura epica dei progetti).

Ma le tematiche fondamentali dell'opera di Milius – umanesimo e panteismo fusi nell'epopea – non sono isolate e abbandonate a una sterile rappresentazione. Accanto a esse la foga descrittiva del regista/sceneggiatore viene plasmata da una grande perizia tecnica e l'ardire del pensiero trova sempre il giusto sfogo nell'osare della cinepresa. Il cineasta statunitense ha saputo condurre l'astante – purché in buona fede – sulle dune oppure l'ha trasformato in un Laocoonte rivale dei flutti, l'ha riportato in un'era primitiva o lo ha condotto a immedesimarsi negli ipotetici resistenti di Alba rossa, l'ha fatto sentire aborigeno tra i daiacchi ovvero l'ha portato all'assalto della collina di San Juan.

La vita artistica di Milius ha vieppiù subito una sovrapposizione tra girato e realtà e, col tempo, la possibilità di dar voce all'afflato tonificante dell'Ulisse che è in lui è stata tramortita dalla triste contingenza dell'incomprensione. Il suo ultimo titolo, Rough Riders, non è nemmeno arrivato nei cinema. Dopo aver evitato per tutta la carriera di riproporre gli stessi attori, Milius ha raccolto, in quest'ultimo lungometraggio, ben cinque sue vecchie conoscenze: Brad Johnson, Gary Busey, Geoffrey Lewis, William Katt e Brian Keith. Come dire: loro si ricordano chi sono e sanno cosa posso ancora fare.

Ora la speranza è che qualche produttore amante del rischio – ma anche del cinema – gli dia un'altra chance in grande stile, e non solo come sceneggiatore. Tra i suoi progetti annoveriamo un altro capitolo di Conan oppure Manila John, o magari il suo sogno: un lungometraggio su Curtis LeMay. Milius è uno dei pochi rimasti (insieme al solito Cimino) a credere in un cinema poderosamente crepuscolare e spettacolarmente evocativo ed è troppo presto per intonargli il triste peana: Farewell to the King.

 


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