Terminator: lunga vita alla nuova carne PDF 
Matteo Marelli   

Il cinema di James Cameron è l’equivalente odierno delle cattedrali medievali. Epico sia nella dimensione che nell’attenzione ai dettagli. Assemblati nel corso di anni da migliaia di tecnici specializzati, ognuno dei suoi film si propone come la massima rappresentazione della professionalità collettiva contemporanea. I film di Cameron sono cattedrali immateriali fatte di luce. Dopo l’infelice esordio avvenuto con Piraña paura nel 1981, ogni sua regia è stata innanzitutto una vera e propria sfida tecnologica: con Cameron il cinema mette in scena il proprio apparato, l’industria mostra se stessa, le proprie capacità tecniche.

Ragionando attorno alla sua filmografia possiamo dire che i lavori di Cameron offrono una lunga serie di ossessioni ricorrenti, peraltro già rintracciabili in quello che potremmo considerare il suo reale debutto registico, Terminator del 1984, “fulminante film di fantascienza gravido degli umori rozzi del B-movie, ma magistrale, teso e narrativamente  coinvolgente come una produzione ad alto budget” (1), a cui fa seguito, sette anni dopo, Terminator 2: Il giorno del giudizio. I primi due capitoli della saga di Terminator sono vero cinema cyberpunk. Cyberpunk è un termine "forte", quasi ossimorico. Al concetto di "scienza esatta dell’informazione", quella cibernetica espressa dal prefisso cyber, appannaggio di una certa hard science fiction considerata "di destra", è accostata l’idea, diametralmente opposta, di "attitudine ribelle", rappresentata dalla radice punk. Uno dei temi chiave della poetica cyberpunk, la visione distopica del futuro, è argomento su cui è spesso tornato a riflettere anche Cameron, il cui cinema riguarda la fine del mondo, il nostro, di come lo conosciamo ora, e preannuncia “l’inizio di uno nuovo, dominato […] dalla tecnologia, più veloce, icastico, moderno, eccitato” (2). Cameron immagina un universo cibernetico – da cibernetics termine coniato da  Norbert Wiener derivato dal greco kybernanan (pilotare), per indicare quella scienza che studia e progetta macchine capaci di autoregolarsi – in cui ciò che era stato pensato originalmente come tecnologia al servizio dell'umanità sviluppa una propria mente in disaccordo con quanto previsto dai suoi creatori. Un universo in cui si realizza un rapporto organico con la tecnologia, dove la carne si integra indissolubilmente con il metallo, e il confine tra ciò che è artificiale e ciò che non lo è si fa sempre più sottile, indistinto e inquietante. Cameron attraverso la saga di Terminator ci guida in un mondo di corporalità mutanti, di codici immaginari, di ricercate contaminazioni tecnologiche, in cui il concetto di uomo si offusca fino a scomparire. Ci troviamo di fronte ad una realtà “che non è più capace di decretare la differenza che corre tra biologico e meccanico, tra essere umano ed elemento automaticamente riproducibile” (3). I cyborg di Terminator sono l’altra faccia del sogno di un’umanità che, nel metallo, ha pensato di poter sublimare la propria deficienza organica. In questo Cameron si avvicina alle teorizzazioni di Sterlac, artista tra i più consapevoli delle trasformazioni che le tecnologie stanno determinando alla nostra struttura biologica. Convinto sostenitore dell’obsolescenza organica, Sterlac ha posto come principio fondante della propria pratica artistica l’idea che il corpo umano è biologicamente male equipaggiato: “Il corpo è una struttura né molto efficiente né particolarmente resistente. Spesso funziona male e si affatica rapidamente; la sua efficienza dipende dall’età. È soggetto a malattie e condannato a una morte certa e prematura. I suoi parametri di sopravvivenza sono molto limitati” (4).

Per Sterlac soltanto nel momento in cui il corpo diventa consapevole della propria condizione è possibile pianificare strategie post-evolutive. Per l’artista la questione fondamentale non è se la società permetterà alla gente la libertà d’espressione, ma se la specie umana consentirà all’individuo di costruire un codice genetico alternativo, così che i mutamenti biologici possano diventare il risultato di una scelta invece che del caso. Quindi non più perpetuare la specie umana mediante la riproduzione, ma perfezionare l’individuo tramite la sua riprogettazione. Quella che potrebbe apparire come una provocatoria boutade è per Sterlac il risultato ultimo di un processo già in atto. Per l’artista, infatti, l’evoluzione è terminata nel momento in cui la tecnologia ha cominciato ad invadere il corpo: “Quando la tecnologia fornisce a ogni individuo il potenziale per progredire nel proprio sviluppo individuale, la coesione con la specie non è più importante” (5). Il suo lavoro si concentra sull’idea di estendere le facoltà del proprio corpo attraverso la realizzazione di un vestito elettronico. Tra il 1981 e il 1994 elabora e costruisce una delle sue opere più conosciute: The Third Hand. Si tratta di una mano artificiale, fissata al braccio destro come elemento aggiuntivo e non come sostituzione prostetica, in grado di muoversi autonomamente. Il passo successivo è il Virtual Arm Project, un braccio virtuale che egli concepisce come un manipolatore universale generato al computer e controllato da una macchina di realtà virtuale. Nel 2000 Stelarc realizza la performance Movatar, alla base della quale vi è l’idea di rovesciare il tradizionale meccanismo della motion capture. Stelarc lascia che ad animare il proprio corpo sia un avatar, un entità virtuale dotata di intelligenza artificiale. Non più, quindi, un corpo umano che utilizza i propri impulsi per muovere il suo doppio virtuale, ma al contrario, un avatar che anima il corpo del performer, attraverso un esoscheletro, in modo del tutto spontaneo ed imprevedibile. A ragione i cyborg di Terminator – lo scheletro robotico del T800, e il T-1000, tecnologicamente ancora più avanzato e avanguardistico come dimostra la sua struttura di metallo liquido che può permettergli di  assumere la forma di tutto ciò con cui viene in contatto – possono essere visti come l’esito estremo del processo di penetrazione della tecnologia nel corpo umano formulata da Sterlac, il quale prevede comunque che qualora si dovesse arrivare alla realizzazione di robot autonomi questi saranno capaci di “disobbedienza intelligente”.

Da quanto detto possiamo quindi affermare che anche Cameron, come Sterlac, è un teorico del post-organico. Seppur schierandosi, alla fine, dalla parte dell’uomo, “tanto che fa compiere al Terminator schwarzeneggeriano il percorso che va da una decostruzione anti-umana a una umanizzazione delle caratteristiche robotiche” (6), è innegabile l’incanto e l’attrazione che il regista nutre nei riguardi della tecnologia. Per meglio spiegare cosa si intende per post-organico si può recuperare e riadattare la riflessione condotta da Gianni Canova sullo scenario epistemologico del postmoderno (7). Il prefisso post suggerisce l’idea di un qualcosa che viene dopo qualcos’altro. Dunque, così come il post-moderno confessa nell’atto di nominazione di non poter fare a meno del moderno,  anche il post-organico dichiara in un certo senso la propria dipendenza verso la realtà corporea, se non altro per negarla, per candidarsi alla sua successione, per prendere le distanze da un modello ormai inadatto a rappresentare il mutato panorama socioculturale. Post-organico quindi come presa d’atto d’una perdita, come elaborazione di un lutto, termine che profila un paesaggio culturale che ha l’aspetto di un day after, o di un’apocalisse già compiuta. L’ibridismo sopra accennato – il collasso delle distinzioni tra biologico e meccanico – in Terminator investe tanto il piano diegetico che quello propriamente fisico. Il cinema di Cameron “è figlio di pellicola e digitale, tecniche computeristiche d’avanguardia e utilizzo dell’organizzazione industriale nelle sue più avanzate ed estreme capacità” (8). È cinema dell’integrazione tra riprese reali e corpi simulati al computer. Per ottenere questa integrazione è stato necessario abbassare la qualità delle immagini sintetiche. La loro perfezione andava attenuata per adeguarle all’imperfezione della grana della pellicola. L’immagine sintetica, infatti, è svincolata dai limiti della visione umana e di quella fotografica. Può avere una risoluzione e un livello di dettaglio illimitati. Non è condizionata dall’effetto di profondità di campo, per cui tutto quanto è perfettamente a fuoco. Dal punto di vista della visione umana si tratta chiaramente di un’immagine iperreale e, tuttavia, completamente realistica. L’immagine sintetica è il risultato di una visione diversa, più perfetta rispetto a quella umana. Potremmo quasi dire che è la visione di un cyborg. È una rappresentazione realistica della futura visione umana, potenziata dalla grafica computerizzata ripulita da ogni disturbo.

“Le immagini sintetiche generate al computer non sono una rappresentazione di serie B della nostra realtà, ma una rappresentazione realistica di una realtà diversa” (9). Seguendo lo stesso ragionamento anche le figure umane generate attraverso l’animazione tridimensionale sono da considerarsi non come riproduzioni imperfette del reale, ma rappresentazioni realistiche di un corpo cibernetico che deve ancora venire. “L’immagine sintetica rappresenta semplicemente il futuro. In altre parole, se una fotografia tradizionale riflette sempre un evento passato, la fotografia sintetica riflette un evento futuro” (10). Attraverso l’integrazione tra riprese reali e corpi simulati al computer, Cameron cerca di mostrare il futuro stesso della vista, la visione cibernetica, libera da disturbi e in grado di cogliere un’infinità di dettagli. Questo si fa particolarmente evidente in Terminator 2. La forma del T-1000 è quella di un robot futuristico, e “in piena corrispondenza con tale logica, questa forma viene rappresentata con la grafica computerizzata. […] I suoi riflessi sono ultra nitidi e definiti, senza sfocamenti” (11). Si può allora azzardare che quello di Cameron è un cinema realista nel senso baziniano del termine. Secondo André Bazin, infatti, una rappresentazione realistica dovrebbe avvicinare le dinamiche percettive e cognitive della visione naturale. Per il critico e teorico francese questa dinamica implica un’esplorazione attiva della realtà visiva, che è appunto quello che fa Cameron che, come s’è visto, cerca addirittura di mostrare come potrebbero cambiare le nostre modalità percettive. Cameron è cineasta che vede molto oltre il presente, nel tentativo incessante di costruire un cinema del futuro.

Note:
(1) Roy Menarini, James Cameron, Le Mani, Genova, 1998, p. 13
(2) Ibidem p. 9
(3) Ivi. p. 57.
(4) Sterlac, Da strategie psicologiche a cyberstrategie: prostetica, robotica ed esistenza remota, in Pier Luigi Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico. L’influenza delle tecnologie sul corpo e sulle facoltà, Baskerville, Bologna, 1994, p. 63
(5) Ibidem, p. 65
(6) Roy Menarini, James Cameron, op.cit., p. 25
(7) Cfr. Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello, Bompiani, Milano, 2004 
(8) Roy Menarini, James Cameron, op.cit., p. 19.
(9) Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Edizioni Olivares, Milano, 2002, p. 255.
(10) Ibidem
(11) Ibid. p. 257

TITOLO ORIGINALE: The Terminator; REGIA: James Cameron; SCENEGGIATURA: James Cameron, Gale Anne Hurd, William Wisher Jr.; FOTOGRAFIA: Adam Greenberg; MONTAGGIO: Mark Goldblatt; MUSICA: Brad Fiedel; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1984; DURATA: 108 min.

TITOLO ORIGINALE: Terminator 2: Judgment Day; REGIA: James Cameron; SCENEGGIATURA: James Cameron, William Wisher Jr.; FOTOGRAFIA: Adam Greenberg; MONTAGGIO: Conrad Buff, Mark Goldblatt, Richard A. Harris; MUSICA: Brad Fiedel; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1991; DURATA: 136 min.

 


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