La febbre: D’Alatri, (scon)volto nella folla PDF 
di Paolo Fossati   

"Non so distinguere un film dall'altro. Per me, ho sempre girato lo stesso film. Si tratta di immagini e solo di immagini: che ho girato usando i medesimi materiali, forse sollecitato di volta in volta da punti di vista diversi".
(Federico Fellini, Fare un film)

Un volto nella folla. Un uomo immobile circondato da corpi che si agitano in movimento frenetico, ritmico e rituale. E' fermo, per osservare il mondo ed imparare ad affrancarsi dalla schiavitù del conformismo. Per un attimo scruta l'avverarsi di un suo sogno, vi si immerge. Tutto gira intorno a lui, che, giunto all'obiettivo prestabilito, sembra provare già nostalgia per il viaggio che lo ha condotto alla meta.
Il piano sequenza in slow motion, con cui Alessandro D'Alatri dà inizio a La febbre, il suo ultimo film, descrive questa situazione e, contemporaneamente, si eleva a sintesi simbolica di tutto il suo cinema.

Il film si apre con una ripresa aerea: un volo panoramico sulla città, una lenta discesa dal gusto hollywoodiano, che fluttua con impeto indagatore fino a scovare il protagonista, nel buio di un locale affollato. Ecco, dunque, al centro della scena svettare smarrito Fabio Volo, nei panni del geometra Mario Bettini, circondato da una tribù che balla, accerchiato dai movimenti della macchina da presa, che, roteando, lo rende muto perno dell'azione. La musica extradiegetica svela il valore simbolico della scena: mentre sullo schermo i giovani che gremiscono il locale danzano convulsamente, evocando la presenza nell'aria di dure sonorità elettroniche, gli spettatori vengono invece cullati da note di pianoforte e da una melodia malinconica carezzata dalla voce di Giuliano Sangiorgi dei Negramaro.

L'incantesimo s'infrange come un sogno, svegliandoci di soprassalto: un flashback ci riconduce al principio di una storia ancora tutta da raccontare, quella di un uomo che si rende conto di poter soffrire di solitudine anche senza isolarsi e, sconvolto, s'interroga sui legami tra se stesso e la società. Si chiede come far convivere sogni e bisogni, come mettere a fuoco - senza bruciarli - i propri desideri, fino ad osservare nitida la propria vita in uno specchio e vedersi parte integrante dello sfondo. Si domanda come appartenere davvero al un mondo in cui è immerso.

La ricerca di un equilibrio tra se stesso e gli altri, cifra riscontrabile in tutta la filmografia di D'Alatri, è messa a nudo in La febbre attraverso una poesia di Derek Walcott, che si inserisce nel testo filmico apparentemente in modo discreto, per divampare poi improvvisa levandosi come lucido dialogo interiore, utile a risvegliare il protagonista dal torpore insito nel suo dna da placido idealista di provincia. Citare e (re)citare "Amore dopo amore" conferisce al film un'aura incantata e, al tempo stesso, predispone il terreno per una chiave interpretativa del lungometraggio, interessante, ma troppo evidente per accettarla come unica via: Tempo verrà / in cui, con esultanza, / saluterai te stesso arrivato / alla tua porta, nel tuo proprio specchio, / e ognuno sorriderà al benvenuto dell'altro / e dirai: siedi qui. Mangia. / Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io. / Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore / a se stesso, allo straniero che ti ha amato / per tutta la vita, che hai ignorato / per un altro e che ti sa a memoria. / Dallo scaffale tira giù le lettere d'amore, / le fotografie, le note disperate, / sbuccia via dallo specchio la tua immagine. / Siediti. É festa: la tua vita è in tavola.

In ogni film, fin dall'esordio, il regista narra storie di uomini messi a confronto con la propria identità attraverso un lento processo d'impatto con l'universo sociale circostante. In Americano rosso (1991) racconta l'inesorabile discesa di un uomo verso un destino fatale, da cui con una presa di coscienza decisa si sarebbe potuto salvare. Ambientato negli anni Trenta, è la storia di un playboy di provincia, interpretato da un giovane Fabrizio Bentivoglio, che gestisce l'agenzia matrimoniale di uno zio poco onesto e, credendo di mettere a segno una piccola truffa ai danni di un italoamericano, si lascia invece raggirare. E' il primo personaggio della galleria di individui messi in scena da D'Alatri e, forse, quello che si crede più scaltro, ma perde l'amore e la libertà.

Senza pelle (1994) mostra, invece, un doppio punto di vista sul problema dell'integrazione: da una parte quello di un ragazzo (Kim Rossi Stuart) che soffre di problemi psichici e si trova indifeso dinanzi al mondo (come fosse, appunto, "senza pelle": privo del confine ultimo tra se stesso e gli altri, quindi estremamente sincero e vulnerabile); dall'altro versante l'angolazione da cui osservare il dipanarsi della vicenda è quello di un uomo tranquillo (Massimo Ghini) che vede la quieta routine della propria esistenza spezzata dall'intrusione del giovane, che si innamora di sua moglie (Anna Galiena). Entrambi i personaggi maschili si scontreranno con una società che fatica a comprendere i loro sentimenti e discriminerà la loro stessa volontà di aiutarsi a vicenda, dopo essersi fronteggiati. Con I giardini dell'Eden (1998) D'Alatri firma un film in costume di tematica religiosa e, affidando a Kim Rossi Stuart la parte di Jeoshua, lo presenta fin dall'inizio della narrazione circondato da sacerdoti a cui racconta le proprie esperienze. La sensazione di accerchiamento trasmessa sia dalla regia sia dalla sceneggiatura è speculare a quella riproposta in Casomai (2002), nel quale la coppia di sposi interpretata da Fabio Volo e Stefania Rocca si trova ad affrontare le ingerenze di familiari, amici, colleghi e conoscenti sempre pronti ad interferire nella vita privata altrui. Una scena emblematica e surreale mostra i coniugi pattinare sul ghiaccio, indifesi sotto l'attacco verbale di volti "amici" che incombono su di loro, affollando il cielo come nubi durante una tempesta, tuonando giudizi e sferrando consigli frastornanti.

L'uomo comune ed il suo sforzo di affrontare la vita rapportandosi con la società senza scendere a compromessi: ecco la tematica che lega tutte le opere di D'Alatri. Nel recente La febbre si manifesta a molteplici livelli, non ultimo il confronto tra generazioni, mostrato attraverso espedienti narrativi che sottopongono il protagonista, Mario, a flussi di emozioni di tipo opposto, intrecciando la sua gioventù con l'ineluttabile idea della morte: all'inizio della propria carriera trascorre la giornata lavorativa con un collega in età da pensione, che improvvisamente spirerà, mentre durante la fase iniziale, entusiasmante e vitale del suo innamoramento per Linda (Valeria Solarino) è incaricato dai superiori di occuparsi del cimitero. La stessa ragazza, sebbene piena vita, gli mostra un filmato che raccoglie un montaggio di immagini riprese sulle tombe dei maggiori poeti italiani. Il presente, già saturo di pensieri riguardanti il futuro, dovrà scontrarsi con il passato, interpretare i criptici insegnamenti rintracciabili ripensando agli eventi di un tempo ormai trascorso per affinare tecniche di sopravvivenza. Ascoltare i consigli degli anziani, come il Presidente della Repubblica (Arnoldo Foà), che sa quale sia la giusta distanza da cui osservare le cose per comprenderle. Leggere nel profondo le verità custodite dai poeti.

Se qualcuno proponeva Gabriele Muccino come analista dei nuovi "mostri" che popolano l'Italia contemporanea (addirittura azzardando paragoni con Dino Risi), a noi Alessandro D'Alatri sembra un ghostbuster impegnato a stanare non tanto creature mostruose, ma abitudini diffuse: a caccia dei fantasmi della nostra epoca, insidiatisi nella mente dell'uomo comune e impegnati a persuaderlo che nulla può cambiare. Il regista nella sua impresa si accolla il rischio di valicare il territorio dei luoghi comuni più diffusi, come il sogno di aprire un locale con gli amici, di incontrare una donna che sia perfetta sintesi tra erotismo e poesia, di dire in faccia alla classe politica quel che si pensa, di rifugiarsi in una cascina in campagna costruendo il proprio piccolo regno pacifico, coronando un sogno d'indipendenza degno dell'Andrea De Carlo di Due di Due... Molti elementi concorrono, quindi, a favore di una catalogazione semplicistica e rapida di un film come La febbre, che andrebbe metabolizzato, invece, lentamente: osservato alla luce dei legami che intrecciano le situazioni, scoperto come marchingegno di precisione, che procede inesorabile per dimostrare un teorema, raggiungendo un risultato trascurabile nello specifico, ma importante a livello paradigmatico. La soluzione degli enigmi dei personaggi, infatti, non è una ricetta di vita, bensì un esempio, lo dimostra l'eloquente simbologia messa in scena dalla ripresa finale, in cui la macchina da presa, con un unico, interminabile movimento inizia a salire, allontanandosi dai personaggi a tal punto da mostrare la cascina-oasi dove si sono rifugiati diventare così piccola da sembrare un coriandolo: un'unica piccola tessera nel mosaico di campi osservabili dall'alto. La fuga verticale del punto di vista giunge tanto lontano da esibire sullo schermo l'immagine satellitare di uno stivale rovesciato: un'Italia nuova, ribaltata rispetto a quella a cui ci ha abituato la cartografia. Geograficamente uguale, ma vista con occhi nuovi, da nuove prospettive.

La cura che D'Alatri riserva all'aspetto estetico non va confusa con la patina che spesso protegge altri tipi di cinema, per evitare che sia osservato altro rispetto alla superficie. Addentrandosi nella narrazione, in profondità, si rivelano le tracce indelebili di una sceneggiatura stesa con l'abile contributo di Domenico Starnone e Gennaro Nunziante. Si scopre un uso delle tecnologia digitale funzionale alla storia e non solo all'estetica. Si individuano scelte narrative funzionali e coerenti con la ricerca interiore stimolata dal film: la dialettica alto/basso, che mostrando i fatti sia dall'interno dell'azione, sia dall'alto, permette di riflettere sul rapporto individuo-società e la contrapposizione sogno/realtà, che consente un confronto generazionale, prima tra il protagonista e suo padre, poi tra il personaggio ed il Presidente della Repubblica. Famiglia e Stato. Nella sequenza onirica in cui Mario incontra il padre defunto (Cochi Ponzoni), la banda di cui l'anziano fa parte procede verso lo spettatore componendosi in un'inquadratura che ammicca all'iconografia pittorica de Il quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, celebre dipinto caro all'immaginario del ventesimo secolo e al cinema (un film su tutti, Novecento di Bernardo Bertolucci). La rappresentazione di una folla contadina che procede in direzione dello spettatore, dipinta tra il 1898 e il 1901, e divenuta celebre emblema socialista, è qui ricomposta a livello simbolico: sostituendo la massa di contadini con i musicisti della banda - di cui Mario non voleva far parte fin da bambino - e facendoli marciare verso di lui fino ad inglobarlo, D'Alatri mostra il disagio del personaggio all'interno della società, il suo bisogno di capire quale sia il suo ruolo. Mario, solo nella nebbia, chiede spiegazioni al fantasma di suo padre. In un'altra situazione surreale, solo nell'unico luogo davvero suo, incontrerà la più alta carica dello Stato e manifesterà la propria volontà di non-appartenenza ad esso. Mario ricerca uno stato esistenziale di armonia con il mondo, la possibilità immergersi nella folla senza riemergere sempre sconvolto da ciò che incontra sotto la superficie.

Il regista, dopo una lettura trasversale delle sue opere, sembra suggerirci di riflettere su un tema preciso: se un tempo l'umanità anelava alla scoperta dell'essenza, del divino, della rivelazione... oggi l'uomo contemporaneo, ancor prima di affrontare un'impresa di tale calibro, sente il bisogno di uno sguardo introspettivo e si dimena alla ricerca della propria identità, arrancando, sconvolto, nella folla.

 


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