Drive PDF 
Matteo Marelli   

Gli anni Ottanta in tutto il loro splendore. Il gusto per l’immagine glam, costruita attorno a modelli stilistico-espressivi attigui a una certa estetica New Wave. Partiture elettroniche gravide si synth. Cromie sature, e una luminosità fuori da ogni rapporto con la realtà, sovrannaturale, abbagliante per le sue acide fosforescenze. Strade buie scosse da lampi di luce elettrica, neon baluginanti e flussi di colori, con predominanza di azzurri sulfurei e rosso sangue, che si rifrangono contro lucide cromature metalliche di auto in corsa, traccianti traiettorie che disegnano sfavillanti geometrie urbane.

Tutto questo è Drive di Nicolas Winding Refn, Palma d’Oro per la miglior regia all’ultimo Festival di Cannes. Refn, rimodellando quest’apparato iconografico, rievoca un immaginario legato ad un preciso contesto storico-culturale, quello di una stagione cinematografica che ha creduto nel potere immaginifico dell’audiovisione, posta come puro valore assoluto. Ma il suo compiacimento formale non è qualcosa di stantio; riesce a non anchilosarsi in uno sterile estetismo. La sua spregiudicatezza registica è il risultato di una solida estetica della visione. Refn rielabora la materia fornitagli da tanto cinema di genere, soprattutto poliziesco, svuotando progressivamente la sostanza narrativa, sempre meno al centro dell'attenzione, a vantaggio di uno stile iperrealistico finalizzato all’esplorazione visiva, anzi visionaria, per non dire allucinatoria, del fatto filmico. L’operazione che compie è quella di trattare in maniera squisitamente formale una materia convenzionale, svuotare il racconto per dar lustro ad un segno cinematografico potenziato a dismisura. La vicenda di Drive, di ambientazione e tematica criminale, sembrerebbe rientrare perfettamente nella formula narrativa del neo-noir suburbano, metropolitano. Driver, meticoloso professionista, sia di giorno come meccanico e stuntman, che di notte come autista per rapine, si espone a rischi non calcolabili pur di proteggere Irene e il figlio Benicio. Tra loro c’è un’evidente affetto che si manifesta attraverso gesti lenti, goffi, carichi di pudore. Entrambi desiderano affezionarsi sempre più all’altro. Ma la scarcerazione di Standard, marito di lei, ancora coinvolto con chi è stato causa della sua detenzione, complica l’evolversi della loro relazione.

Proprio il personaggio di Standard sembrerebbe figurare quel riemergere del passato che innesca un processo di responsabilizzazione nel protagonista, chiamato a rispondere delle proprie azioni, e che Paul Schrader ha individuato come una costante del cinema noir. Eppure questa collocazione non convince del tutto. Qualcosa non torna. In Drive non c’è quell’“atmosfera di temps perdu: di un passato irrecuperabile, di un destino già segnato, di una disperazione che pervade ogni cosa” (1) che contraddistingue il noir. Il film di Refn s’innesta in un’altra tradizione cinematografica americana, quella che continua a celebrare il mito della frontiera e della velocità: il western. Si è soliti pensare al western come ad un genere se non anti perlomeno a-urbano; ma già esperienze cinematografiche precedenti, su tutte quelle di Walter Hill e John Carpenter, hanno dimostrato come la poetica del “lontano Ovest” possa risultare efficace anche rapportata alle logiche e agli spazi metropolitani. Refn, poi, sceglie come teatro dell’azione ciò che è venuto a sostituirsi alla Monument Valley come spazio visibile e simbolico del West, la città di Los Angeles. Una città che proprio per la sua contiguità e spesso “connivenza” con la wilderness è il luogo in cui il selvaggio può ancora apparire. Come un tempo è stato per la frontiera, anche Los Angeles è in lotta contro i principi dell’urbanizzazione, contro i rigidi e prefissati piani regolatori; è una città in continuo movimento, in continua espansione, edificazione, somma e pastiche di stili ed estetiche diverse, “schizofrenica” nel suo mutamento perpetuo. La sua dimensione è tale da non permettere più la sua figurabilità, essa è il luogo della deriva. L’indeterminato vasto piano centrale su cui la vista si perde; lo spazio indescrivibile; lo spazio imprecisato, perlustrabile solo a volo d’uccello. E dall’alto le linee delle luci delle strade losangeline che si intersecano nella notte, formano uno scintillante arazzo di minime luminosità palpitanti. Così com’è stato per il cavallo, l’auto è fondamentale non solo nella definizione dell’ambiente ma anche del tipo di sguardo e di visione.

Anche la figura di Driver è da leggersi in quest’ottica di attualizzazione del mito del western. Il fatto di presentarsi in scena senza un nome proprio evidenzia che prima di essere un personaggio esso si rifà ad un archetipo. È della progenie di Ethan Edwards di Sentieri Selvaggi. Driver sostanzia il profilo di un eroe colto nel suo agire e nelle sue contraddizioni, che non si perde in inutili psicologismi, che si muove al limite dell’abisso solo, silenzioso, efficiente, perfettamente aderente al proprio destino. Bigger than life, più grande della vita stessa: così potrebbe essere definito il protagonista di Drive, uno che preferisce scegliere come morire. E la sua uscita di scena fa tornare alla mente proprio quella di Ethan, entrambi si chiudono una porta alle spalle restando nella wilderness. Sono eroi che percorrono strade sterrate o d’asfalto, guerrieri solitari, sagome che si aggirano in paesaggi inospitali, grafemi che scintillano nella loro forma. Refn traccia una mitologia dove lo spettatore può riconoscere dei modelli derivanti dal repertorio classico del cinema americano di genere, che lui rilegge emozionalmente in chiave romantica, adrenalinica e crepuscolare. In questo senso, Drive è una marcia che incede nella notte della metropoli con andatura tagliente, violenta, carica di una morte che è in agguato, di uno scontro da superare, di un addio prossimo.

Note:
(1) Paul Schrader, Note sul film noir, in Marina Fabbri, Elisa Resegotti (a cura di) I colori del nero, Ubulibri, Milano 1989, p. 174

TITOLO ORIGINALE: Drive; REGIA: Nicolas Winding Refn; SCENEGGIATURA: Hossein Amini; FOTOGRAFIA: Newton Thomas Sigel; MONTAGGIO: Matthew Newman; MUSICA: Cliff Martinez; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2011; DURATA: 100 min.

 


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