The Interpreter: in mezzo scorre(va) il fiume PDF 
di Marco Toscano   

"Quando un giapponese non ce la fa più, chiude la finestra e si uccide; quando un americano non ce la fa più, apre la finestra e ammazza qualcun altro". La celebre battuta è tratta dalla sceneggiatura che Paul Schrader scrisse per Yakuza (1975), capolavoro indiscusso del cinema di Sydney Pollack, e rende alla perfezione il significato ultimo del film. Un noir violento e struggente il cui oggetto d'interesse primario non è tanto la perpetrazione di una vendetta o il rigore morale del perdono, ma la possibilità di un incontro, dello stabilirsi di un legame autentico tra due uomini lontanissimi per cultura, tradizioni e rapporto con la realtà sensibile e non (uno è americano, l'altro giapponese per l'appunto) e ulteriormente divisi da storie personali profondamente diverse (ma intrecciate, e conflittuali tra loro), nonché da differenze apparentemente insuperabili in fatto di mentalità, abitudini, modo di operare. Ma Harry verrà gradualmente conquistato dal senso dell'onore dell'aiutante/rivale Tanaka, il quale da antagonista si rivelerà essere il suo unico vero amico, e ne condividerà la visione del mondo.

Pollack dimostra di avere particolarmente a cuore questo tema, facendone nuovamente il fulcro, l'asse portante di un lavoro che a una lettura superficiale si propone all'attenzione soprattutto per il profluvio di abusate citazioni hitchcockiane - dall'ovvio Intrigo Internazionale a La finestra sul cortile, da L'uomo che sapeva troppo (qui evidentemente una donna) a Psycho (il tentato omicidio di Silvia sotto la doccia) a La donna che visse due volte (richiamata dalla controversa vicenda della protagonista che per la verità, da guerrigliera a incarnazione dei valori stessi dell'ONU e viceversa, di rinascite ne compie almeno quattro) - e parahitchcockiane (The Manchurian Candidate, in modo particolare per la sequenza dell'attentato fallito, con il cecchino posto addirittura nella posizione corrispondente a quella occupata nel film di Demme; inoltre si potrebbe sostenere che, come Silvia, anche il comandante Marco "senta le voci" e ne subisca il pesante condizionamento nel suo operato), nonché per l'interesse suscitato presso stampa e pubblico per essere stata la prima produzione cinematografica a poter "abitare" in sede di ripresa le smisurate sale del palazzo delle Nazioni Unite, elemento peraltro non trascurabile, non tanto per il dato puramente storico-cronachistico, quanto per il contributo fortemente condizionante e strutturante che nel film il luogo arreca all'azione, in presenza di un autore che, come Pollack, sappia valorizzarlo e renderlo "personaggio" a tutti gli effetti.

Eppure The Interpreter si dimostra un'opera dolorosa e complessa, sostanziandosi di confronti, compenetrazioni, tracciati individuali. Proprio come in Yakuza, due esseri si trovano inizialmente (come viene esplicitamente detto nel film) "sulle sponde opposte del fiume". Separati, come in quel caso, da una distanza culturale (Tobin è americano, Silvia un'africana di razza bianca originaria del Matobo, immaginario stato dell'Africa meridionale), ma, a differenza del film precedente, anche sessuale e "di ruolo". I due, infatti, adempiono a occupazioni (apparentemente) diverse, seppur frequentando lo stesso luogo di lavoro (lei è interprete all'ONU, lui un agente dei servizi segreti). E la loro "lontananza" (e il suo progressivo annullamento) passa anche da questo: se Silvia è abituata a lavorare con le voci, Tobin ha imparato a riconoscere i volti. Il conflitto che ne scaturisce determina il loro rispettivo, convergente percorso: ad esso è imputabile ad esempio l'iniziale fraintendimento tra i due protagonisti, parte evidentemente di universi sensoriali e procedurali differenti (visuale per l'agente, auditivo per l'interprete), con la conseguente accusa di implausibilità formulata da Tobin per la versione dei fatti di Silvia; ad esso è dovuta la strutturazione del loro rapporto, con l'uomo che si relaziona alla donna essenzialmente "guardandola" (sorvegliandola ad esempio dall'edificio di fronte al suo) e che in Silvia riconosce, dal canto suo, l'unica persona in grado di "ascoltarlo", letteralmente di "sentire" il suo dolore (con lei si confida per la prima volta riguardo alla tragica morte della moglie, esponendo una porzione di sé e della propria vita tenuta fino a quel momento ostinatamente sommersa).

Si potrebbe interpretare tale opposizione come una riflessione sul cinema post-moderno, sospeso tra l'insostituibilità della vista e l'opposta rinuncia ad essa, con la rottura del legame classico tra visione e conoscenza - riferibile alla scelta (anti)estetica di forme rese volutamente illeggibili dallo stile di ripresa o di montaggio, ma soprattutto alla generazione digitale di immagini simulacrali che segnano uno slittamento da un universo iconico a una dimensione idolica e areferenziale - e l'avanzare di logiche e apparati (organici e meccanici) di fruizione alternativi, in primis proprio quello auditivo (privilegiato dai stupefacenti sistemi di ascolto di cui si sono provviste le sale cinematografiche - a partire dalla proiezione di Guerre Stellari nel 1977, che inaugurò il Dolby Surround e il cosiddetto "effetto bagno" - ma anche dai più avanzati impianti domestici come l'home cinema o l'home theater). Nella contrapposizione tra territorio dell'occhio o dell'orecchio si potrebbe altresì ipotizzare una diegetizzazione del confronto tra fruizione televisiva (anche riferita ai prodotti filmici) e cinematografica, che nel primo caso prevede un "ascolto" fondato su un'endemica strutturazione di "flusso" e su una distrazione dovuta alle condizioni di "rumore" ambientale (intrusioni e disturbi esterni che mettono continuamente a repentaglio il barthesiano "effet du réel" del testo) e discontinuità temporale (basti pensare alle interruzioni imposte dalla pubblicità) contingenti alla pratica dello spettatore, nel secondo invece una "visione" attenta ed esclusiva.

In realtà, se il contatto tra i due personaggi di Pollack è finalmente possibile è perché (come in Yakuza, se amare la stessa donna è indicativo di una qualche nascosta affinità) essi sono realmente più simili di quanto facciano supporre, non solo nell'essere tragicamente segnati da una perdita affettiva, nella conseguente elaborazione del lutto e nell'indecisione tra vendetta e perdono. Silvia è un'interprete esattamente come lo è un agente come Tobin, con la differenza del rispettivo campo d'indagine (lei traduce emissione di voce, lui prevalentemente indizi visivi). Tobin, inoltre, chiama un numero (il proprio) a cui sa che non risponderà nessuno solo per ascoltare una segreteria telefonica, quella registrata dalla moglie uccisa: ha, per l'appunto, nostalgia-mancanza di una voce (tramite la quale richiamare alla memoria l'immagine di un volto e impedire così che scivoli nell'ombra). Allo stesso modo, specularmente, Silvia versa lacrime per la morte dell'amico fotografo e del fratello: piange sulle liste di innocenti trucidati redatte da Simon, che egli corredava di immagini dei defunti, piange sui suoi disegni infantili. Nel suo caso vi è dunque una nostalgia-mancanza di immagini, le quali riacquistano così il loro ruolo centrale. E chiarificatore: nel film, infatti, tanto l'immagine è rivelatrice quanto la voce è ambigua e carica di insidie. Nel prologo africano Xola e Simon vengono uccisi nel campo di calcio nel momento in cui riemergono dai sotterranei attirati da una voce che li chiamava, annunciando il falso. Non a caso, poi, la minaccia dell'attentato non si manifesta a Silvia attraverso la vista dei congiurati, ma tramite l'accidentale intercettazione dei loro discorsi sussurrati; Silvia stessa, che in quanto interprete lavora con e sulle voci, è figura sfuggente e contraddittoria, dal passato misterioso, tanto che l'agente e la sua squadra si dimostrano incapaci di tutelare efficacemente il proprio testimone attraverso un contatto basato esclusivamente sulla voce (auricolari, telefonini). Per contrasto, invece, Tobin riesce a intuire l'identità dell'attentatore facendo ricorso alla propria memoria visiva, alla capacità di fissare indelebilmente una faccia (sottolineata dalle brevi immagini nel b/n del flashback).

Inoltre la maturazione di Silvia (e dunque la svolta dietetica) coincide col materializzarsi della voce in immagine, quando cioè la parola si fa lettera, carattere codificato, e la dimensione parlata (regno, come si è visto, della menzogna e dell'intrigo) si invera nella traccia scritta, cominciando in tal modo a esistere, a rientrare nell'orbita dell'accertato: così la morte di Simon diviene una drammatica realtà solo nel momento in cui viene (de)scritta su un foglio di carta. Al riguardo si può notare come Silvia abbia tra le mani la lettera di Philippe, ma, ancora partecipe di un sistema esclusivamente orale, sceglie di non leggerla direttamente, ma di farsela "riconvertire" in impulsi vocali. Al termine della stessa, però, il prendere in mano una penna è il segnale di uno scavalcamento di campo, di un mutamento profondo che si esprime su livelli diversi. L'annotare il proprio nome in fondo alla lista di perseguitati dal regime matobano equivale infatti paradossalmente alla decisione di passare a un'azione persecutoria (livello diegetico), rifiutando il ruolo sin qui ricoperto di vittima passiva per divenire agente del proprio destino (livello attanziale) e soprattutto smentendo (come già avveniva alla stessa Kidman in Dogville di Lars von Trier) quell'etica del perdono e della stoica sopportazione del dolore e dell'ingiustizia che Silvia aveva professato in modo tanto toccante parlando con Tobin (livello ideologico). In piedi di fronte al dittatore Zuwanie, però, la donna torna a vivere di parole riportate, godute di riflesso, costringendo il dittatore a leggere dal testo che, all'inizio del sogno, egli aveva scritto. Coerentemente, in coincidenza di ciò, si assiste in lei a una riconversione (o la sua vera natura si afferma definitivamente, dimostrandosi superiore a un sentimento solo transitorio): Silvia infine non spara, ma accetta quella logica (illusoria?) del perdono che aveva disconosciuto. È proprio Tobin a sollecitarla in tal senso, rivelandosi in tal modo il vero protagonista del film, in quanto personaggio che, dato il punto di partenza, è investito da un cambiamento complessivo più radicale di quello di Silvia, la quale decide in un primo tempo di giustiziare Zuwanie avendo però già alle spalle un passato da combattente (per quanto si sforzi di allontanarlo da sè, non riconoscendovisi) e che comunque, alla fine, recupera le proprie posizioni.

Una sequenza dunque che mette in controluce non tanto il cammino verso la morte e il riemergere alla vita (non solo diegeticamente, ma secondo una concezione più ampia) dell'indecifrabile interprete, bensì il percorso esistenziale intrapreso da Tobin, un viaggio senza ritorno da portare a termine, una volta abbracciato, senza esitazioni: il testimone che ha ricevuto in affidamento non è più così solo materia di lavoro, un argomento confinato nella sfera professionale con il quale deontologicamente non imbastire nessun tipo di rapporto, bensì un essere umano da proteggere e per il quale sacrificarsi. Un tentativo infine sicuramente più difficile: perché perdonare è più arduo che odiare, ed è certo più facile per chi lo assume come dettame facente parte del proprio patrimonio culturale rispetto a chi si sforza di "impararlo", avvicinandolo come soluzione del tutto estranea. Tale sequenza si configura dunque come l'esatto equivalente di quella che in Yakuza portava l'americano Harry a mozzarsi il dito mignolo, simbolica accettazione di un senso dell'onore espressa attraverso la concreta adesione a un'usanza tipicamente giapponese. La comunione spirituale tra due esseri ha terminato così di compiersi, svelando due solitudini che continueranno a ogni modo a rimanere tali, a causa di una distanza non più filosofica, ma puramente logistica. Come Harry anche Silvia deve tornare in patria. Come Tanaka, Tobin la osserva allontanarsi. Un uomo e una donna si ritrovano, per un attimo, sulla medesima sponda, dopo essersi mossi l'uno in direzione dell'altra e aver rischiato fatalmente di non incontrarsi, di invertire semplicemente le proprie distanze. Il fiume è alle loro spalle mentre si guardano e parlano.

 


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