Source Code PDF 
Maurizio Ermisino   

Ground control to Major Tom, cantava David Bowie nel lontano 1969. Il brano è "Space Oddity", la storia di un astronauta in missione per la Luna che finiva disperso nello spazio. Sono qui che galleggio intorno al mio barattolo di latta, lontano sopra la Luna, il pianeta Terra è triste e non c’è niente che possa fare. "Space Oddity" è un gioco di parole con 2001: A Space Odissey, il film di Kubrick a cui è ispirato. Nella vita, e nel cinema, tutto torna. Nel 1971 nasceva il primo figlio di Bowie, all’epoca presentato a tutti come Zowie, ma che oggi si fa giustamente chiamare con il suo nome all’anagrafe, Duncan Jones. Al piccolo Duncan il padre leggeva racconti di fantascienza, Orwell, Philip K. Dick, Ballard. Lo portava sul set di film come L’uomo che cadde sulla Terra. Duncan Jones, insomma, è il figlio di Ziggy Stardust, l’alieno del rock. E, quando lo scorso anno lo abbiamo visto esordire con Moon, un film di fantascienza molto vicino all’Odissea di Kubrick, ci è sembrata la cosa più naturale. Non poteva essere altrimenti.

Duncan Jones è uno dei nuovi talenti del cinema sci-fi, e lo conferma anche nella sua opera seconda, Source Code. Il capitano Colter Stevens (Jake Gyllenhaal) è costretto a rivivere gli ultimi otto minuti di vita di un passeggero di un treno che esploderà in seguito a un attentato: si risveglia all’improvviso senza sapere dov’è, di fronte a sé ha una donna (Michelle Monaghan) che gli sorride e in tasca ha la carta d’identità di un professore. Tra un viaggio e l’altro, in questi otto minuti sempre uguali della vita di un passeggero, si ritrova in una capsula dove una donna, da un video, gli impartisce gli ordini. L’attentato è già successo, ma lui sta viaggiando indietro nel tempo, grazie al programma Source Code, per scoprire chi è l’attentatore e perché colpirà di nuovo. Jake Gyllenhaal è perfetto in un ruolo a metà strada tra quelli interpretati in Jarhead e Donnie Darko, uomo d’azione risoluto ma umano, grazie a quel briciolo di fragilità nello sguardo che lo rende così unico. Raccontata così la storia sembra la versione dark e ossessiva di Ricomincio da capo. Ma l’atmosfera futuristica e paranoica, e la costruzione da thriller, lo avvicinano più ad alcune opere dickiane come Minority Report (e alla sua versione semplificata, Déjà vu). Jones sembra a suo agio con i codici della fantascienza, e nella sua carriera, che speriamo lunga, promette di sviscerarne tutte le sfaccettature. Se in Moon ci aveva raccontato l’alienazione e la solitudine, qui esplora la tensione, con un occhio anche a Hitchcock: basti pensare ai panni del professore “innocente” in cui si incarna il capitano Stevens. Ma anche al classico schema della suspense hitchcockiana, la bomba che sta per esplodere: qui accade ogni otto minuti, la deadline è riproposta di continuo, e la tensione è sempre alta. Assieme alla curiosità: come il protagonista, anche noi siamo all’oscuro, e per questo il film intriga e appassiona, incollando lo spettatore allo schermo.

Ha la paranoia di Philip K. Dick, questo Source Code, paranoia che alla fine del decennio del terrorismo globale e delle guerre preventive è quanto mai attuale. E Duncan Jones è il figlio dell’alieno, e quei libri che gli leggeva il padre l’hanno segnato nel profondo. Moon e Source Code sono due film distanti tra loro eppure vicinissimi. Personale, indipendente e low budget il primo, blockbuster su commissione il secondo; con un unico attore il film d’esordio, con decine di comparse questo. Eppure entrambi i film sono claustrofobici, alienati e alienanti, ambientati come sono in un luogo chiuso (la stazione spaziale di Moon come il treno e la capsula di Source Code), sono storie in cui qualcuno è solo contro tutti, ignaro di cosa stia accadendo, abbandonato ai suoi soli sensi per risolvere la situazione. E allora il cerchio si chiude, perché i protagonisti di Duncan Jones sono come il Major Tom di "Space Oddity". Seduti in un barattolo di latta, lontani sopra il mondo.

TITOLO ORIGINALE: Source Code; REGIA: Duncan Jones; SCENEGGIATURA: Ben Ripley; FOTOGRAFIA: Don Burgess; MONTAGGIO: Paul Hirsch; MUSICA: Chris P. Bacon; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2011; DURATA: 93 min.

 


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