Osservando il tramonto: Sokurov a caccia d'anime PDF 
di Gianmarco Zanrè   

Dai tempi in cui Aristotele definì l'uomo come "animale sociale", narratori di ogni genere si sono sempre rivelati attratti dall'inconsueto, scomodo e magnetico fascino delle grandi figure capaci di tracciare, parafrasando una celebre canzone di David Bowie, il tempo pur essendone inesorabilmente vittime: Sokurov va certo annoverato nella ristretta cerchia di cacciatori di anime fuggenti capaci di raccontare senza invadere, e soprattutto - cosa ben più importante dell'invasione - di evitare i facili giochi di specchi e spettacolarizzazioni legate al "mito" che ognuna di queste figure porta con sé. Non a caso, probabilmente, sceglie come penultima tappa per la sua tetralogia sul rapporto fra "uomo" e "mostro", tra coscienza e Storia, l'imperatore Hirohito, il primo monarca giapponese a considerare l'idea di una resa, l'uomo che si alleò con la Germania di Hitler spinto dalle probabilità iniziali di vittoria di quest'ultima e che risparmiò la vita - pur se solo grazie a una sorta di "paradosso" - a milioni dei suoi sudditi, pronti, di fronte all'idea di un armistizio, al suicidio rituale di massa.

Perché, dunque, avvicinarsi a una figura come quella del Temmo, divinità scesa in terra secondo le tradizioni locali, uomo rinchiuso e timido, eppure cieco di fronte a un mondo a lui precluso? Le risposte sarebbero semplici se a portare immagini sullo schermo di fronte ai nostri occhi fosse un regista come gli altri, qualcuno alla ricerca non di un'anima, ma di un racconto: fortunatamente - o sfortunatamente, se non amate un cinema che non teme il rifiuto dell'elemento "fiction" - il cineasta russo non appartiene a questa categoria, e dispone di tempi, strumenti, inquadrature e movimenti di macchina quasi dovesse farsi vento ed entrare, non ravvisato, nella mente di chi ha deciso di studiare, sezionare, analizzare. Pare, addirittura, che il gioco sottile proposto nel precedente L'arca russa - l'ormai storico piano sequenza capace di "distrarre" il pubblico dagli argomenti toccati nel corso dell'incredibile viaggio all'interno dell'Ermitage di San Pietroburgo - sia un ricordo lontano, e che la sottile atmosfera di rarefazione, claustrofobia, sospensione divenga, al contrario, il fulcro dell'intera vicenda, narrata con tempi rigidissimi e solenni, eppure silenziosi, nel meglio della tradizione del cinema russo. Incredibile quanto l'attesa dello spettatore converga inesorabilmente con quella dell'imperatore rinchiuso in un palazzo ovattato e fiabesco, eppure filtrato in grigio e verde, quasi fosse un ricordo che sbiadisce, mentre attorno, non visto, il popolo giapponese patisce l'inferno dell'invasione americana, e prova sulla pelle non solo i devastanti effetti dell'atomica, ma la sensazione che l'esistenza per come era conosciuta nel paese del Sol Levante sia giunta alla sua drammatica conclusione.

Il rapporto fra Hirohito e il suoi servitori - unici, con i ministri, ad avere l'onore di vivere a stretto contatto con il "divino" - racconta, attraverso silenzi, equivoci carichi di sarcasmo, tentativi d'evasione e il confronto con l'imminente ondata di cultura occidentale "d'invasione", il legame indissolubile creato fra l'imperatore e il popolo giapponese dalla tradizione, quella stessa che Hirohito romperà per tornare ad essere uomo, e rinunciare alla divinità imposta da un ruolo sacro e immutabile. Probabilmente Wenders avrà pensato ad un'ennesima umanizzazione di un mostro - dopotutto non stiamo parlando di Gandhi, e questo Sokurov pare saperlo bene, e sottolinearlo spesso e volentieri, grazie a lievi sfumature appena percettibili giocate sulle basi della straordinaria interpretazione di Issei Ogata -, eppure, quasi danzando grazie alla sua straordinaria abilità dietro la macchina da presa, il regista ci mette a contatto con una dimensione distorta della realtà, che il generale MacArthur non esita a definire "fanciullesca", e che costituisce il corpus della crisi presente nel cuore di un uomo prigioniero di se stesso e della figura cucitagli attorno, come il vestito che il servitore fa di tutto per poter togliere dalle spalle dell'imperatore che vuole essere lasciato solo.

Proprio l'intensa serie di dialoghi con il generale americano costituirà il fulcro "dell'azione" dell'intera opera, fornendo allo spettatore numerosissimi spunti di riflessione, in altalena con il ruolo e i rapporti intercorsi fra i due uomini di potere e l'interprete - giapponese d'origine ma americano d'adozione -, così come fra MacArthur e Hirohito stessi. Il pretesto per parlare con un estraneo "imparziale", il difficile confronto con una cultura "lontana" per l'altro, lo sfogo infantile dei propri desideri inespressi - le candele spente quasi danzando, il primo havana - e la rigida disciplina di un militare in carriera, di una sorta di distorto padre putativo per questo piccolo, pericoloso e privo di controllo bambino perduto. Eppure, oltre le implicazioni e le riflessioni sul carattere "umano" del rapporto fra i due antagonisti, a lasciare inequivocabilmente il segno sono indubbiamente i confronti riguardanti la geopolitica e gli attacchi rivolti contro gli avversari nel corso della Seconda Guerra Mondiale: ascoltare MacArthur definire, appunto, "geopolitica", l'idea di comprare tutto quello di cui si necessita senza preoccuparsi di spendere per produrlo appare come un inquietante e scarno quadro della dottrina capitalista e del "nuovo imperialismo" americani tornati alla ribalta anche negli ultimi anni, e soprattutto, come una spiegazione probabilmente non nuova, eppure splendidamente riassunta della mutazione sofferta e vissuta dal Giappone proprio a seguito della resa avvenuta con la conclusione del conflitto: le grandi marche, l'elettronica, i servizi, l'industrializzazione all'occidentale, il G8 paiono divenire, in questo caso, drammatici aspetti di un processo iniziato come "un male minore" e tutt'oggi privo di una direzione che possa rassicurare non soltanto i turisti, ma gli stessi abitanti del paese. A dir poco straordinario, accanto ai riflussi delle ondate provocate da quella tempesta, lo scambio Hirohito/MacArthur a proposito della responsabilità degli attacchi americani a Hiroshima e Nagasaki e giapponese a Pearl Harbour: i capi di stato, i mostri di Wenders, gli uomini prigionieri e tristemente spietati di Sokurov, si dicono dispiaciuti dell'accaduto declinando ogni responsabilità, e confessando al contempo il timore registrato rispetto alle "bestie" autrici di abomini come quelli di cui sono testimoni migliaia di morti legate ai tragici eventi appena citati.

"Se nessuno di noi ha colpa, allora quelle cose saranno accadute da sole" sentenzia amaramente (?) MacArthur, quasi tracciando una linea rispetto all'approccio dei "grandi" alle disgrazie dei "piccoli": come i genitori guardando ai figli, il dolore di chi è troppo piccolo per noi pare essere trascurabile rispetto ai "sommi" pensieri cui, dall'alto, siamo sottoposti probabilmente dal cielo stesso, considerate l'autostima statunitense e l'orgoglio nipponico. Hirohito definisce l'interprete come un "servitore" di MacArthur, che senza indugio si affretta a specificare che solo i monarchi hanno servi, mentre alla base di una democrazia si muovono collaboratori: il tutto senza che l'obiettivo di Sokurov appaia per un istante sfocato, invasivo, pedante. Siamo di fronte a due esseri umani dalle caratteristiche uniche per posizione, ambito storico, profondità culturale e potere politico: eppure, guardandoli cenare, appoggiandosi come fantasmi al vetro che il regista russo pone fra noi e loro, appare impossibile non sentirsi lontani dalla sala di ricevimento ove i due si incontrano, e vicini, al contrario e al contempo, alla gente di Tokyo rifugiata fra le pieghe di una città distrutta, ferita, sconvolta da una tragedia la cui misura nessuno dei "grandi" pare essere riuscito ad afferrare appieno.

Un incontro di culture agghiacciante e irresistibile al contempo, nel quale la storia aleggia come nebbia senza pesare sulla preparazione individuale alla visione della pellicola, e che testimonia l'amore per la ricerca che Sokurov, ancora una volta, pare sfoggiare con la quasi troppa perfezione stilistica cui ha abituato pubblico e critica: potrebbe apparire senz'anima, eppure, dietro le ottiche deformanti e i filtri, le immagini roventi del "Sole" Hirohito di fronte al fuoco che distrugge il cuore del suo Giappone, o quelle cineree degli spettri che aleggiano nei cieli che incombono sulla vettura che conduce l'imperatore al primo colloquio con MacArthur sono così limpide da far impallidire, e premere sulle nostre spalle strette di spettatori paganti tutto il peso della figura dell'uomo che non volle più essere un Dio, come un mito che muore per sopravvivere, che accetta il compromesso conscio della nuova occasione fornita dal futuro.

Se Proust - o, per richiamare un nome più affine ai moderni palati da grande schermo, Wong Kar Wai - concentrava la sua ricerca sul tempo e le sue contrazioni, Sokurov, figlio dei Dostoevskij e dei Tarkovskij, dei Cechov e dei primi piani di Eisenstein, affonda il suo sguardo nel cuore, alla ricerca dell'impulso, più che della sua espressa o silenziosa motivazione, mescolandosi al desiderio del protagonista di provare quello che un Dio non può, né potrà mai essere appieno: un uomo. Così come i mostri tanto temuti dal succitato Wenders, e gli Hitler e i Lenin già "fotografati" dal cineasta russo, anche Hirohito è alla ricerca di una sua identità umana: la poesia incompiuta liquidata in una risata dalla moglie, gli album di fotografie, il cioccolato inviato dagli americani, Charlie Chaplin e le foto per la stampa - attenzione all'inciso sulla Terza Guerra Mondiale, stilettata improvvisa e sagace - che divengono quasi un cammeo dell'attore e regista più importante del ventennio che separò l'ascesa delle grandi dittature e la sconfitta dell'Asse per mano degli Alleati: incredibile quanto il "Divino Sole" appaia ammaliato dagli splendidi ritratti in bianco e nero di Humphrey Bogart e Marlene Dietrich, Greta Garbo e, appunto, Charlot. Volendo ricercare un interpretazione ad ogni livello di intelligibilità, si potrebbe pensare a quanto della presenza di Bogart è legato al Rick Blaine antinazista di Casablanca, alla Dietrich, tedesca "trapiantata", alla Garbo che - e ammicchiamo a Sokurov - diede volto alla spia russa Ninotchka, o, per chiudere, il Chaplin paladino dell'antisemitismo e solo pochi anni più tardi cacciato dagli Stati Uniti in odore di McCarthy.

Di nuovo, la pellicola di Sokurov appare molto più densa e complessa di quello che anche un "comune" film d'autore potrebbe ambire ad essere, dilatando la storia per abbracciare il mondo, la politica, i fatti, le vite occorse perché si giungesse, oppure no, a una decisione. Nessuno probabilmente saprà mai per quale motivo Hirohito, nel 1945, per la prima volta concesse al suo popolo di udire alla radio la propria voce, annunciando pubblicamente la resa agli Usa e non richiedendo, come la maggior parte della popolazione già aspettava, un gesto estremo come quello del suicidio per dimostrare che l'Impero del Sole non si sarebbe mai piegato di fronte a nessun nemico: forse è stata la passione per la biologia marina, il pensiero dei lontani e perfetti pesci gatto, o i salmoni, che nuotano controcorrente fino alla morte, giungendo al termine del viaggio mutati, se non ci è dato sapere nello spirito, profondamente nel corpo. O, più semplicemente, la voglia di essere un uomo, e scoprire cosa accade quando si lascia il guscio in cui si è "cresciuti". O, ancora, la subdola certezza di essere risparmiato dagli americani, e dunque avere la possibilità di abbassare la testa di fronte ai vincitori per poterla rialzare davanti al proprio popolo, di nuovo come capo di stato, seppur voluto - sostenuto, controllato - dai nemici. In fondo, Hirohito doveva sapere che chi è Divino controlla ben poco di quello che crede.

Splendida la scelta, cinematografica, stilistica e contenutistica, del finale "aperto", dove l'esempio portato dall'harakiri del tecnico che registrò il messaggio radio dell'imperatore per la nazione diviene specchio dei sentimenti dei giapponesi senza il bisogno effettivo di scene madri che determinino o sottolineino la drammaticità della situazione: una decisione secca e rigorosa, che strizza l'occhio a modelli più continentali e, forse, inconsueti per un "virtuoso" come Sokurov, eppure, proprio per questo, incredibilmente più incisiva, segno che il talentuoso filmmaker potrebbe osare sperimentando, in un'ipotetica nuova fatica per il grande schermo, uno stile più secco e a tratti "imperfetto", ma certamente capace di fare breccia nei cuori degli spettatori quanto la seconda parte di questo Il sole, in cui lo stesso regista pare avvicinarsi al pubblico quasi e quanto Hirohito si sforza di cercare una condizione umana nella sua natura divina. Anni fa Battiato, tornando a riferimenti musicali, cantava di "un secolo ormai alla fine, saturo di parassiti senza dignità" capaci di spingerlo "solo ad essere migliore con più volontà": è possibile che confusioni come quella, o come questa mostrata non solo dai personaggi, ma dalla stessa mano dell'autore qui analizzato, abbiano portato, nella storia, allo sviluppo di idee incarnate in miti capaci di segnare il tempo e divenutine al contempo vittime sacrificali, carnefici di se stessi e dei loro popoli, da Alessandro Magno fino, appunto, ai "mostri" del XX secolo, che Sokurov sta passando così meticolosamente - pur se solo nei loro rappresentanti più noti - in rassegna: l'impressione è che il pennello del regista/pittore più stupefacente della nostra epoca, oltre all'affresco di visi nascosti dalle maschere del potere, abbia sempre cercato una risposta buona per se stesso, considerato lo spropositato potere che un "creatore" detiene rispetto alla propria opera.

In un certo senso, Sokurov stesso è "divino": dispone della storia per muovere personaggi e riflessioni, macchine da presa e colori, filtri e immagini distorte. Il confronto, così pacato e silenzioso, con i protagonisti delle sue opere, è forse sintomo di una ricerca che guarda all'interno, più che all'esterno, e che pone di fronte alle stesse problematiche proprio lui, il regista e creatore, il "deus ex machina" che materializza un'idea, una ricerca su pellicola, e della pellicola dispone, come dell'attenzione della sala durante la proiezione. Chissà che il primo mostro non sia lui, nel suo piccolo, con il potere d'influenzare "la massa" e la pressione che ne deriva, libero di decidere e disporre delle vite che rappresenta, della vittoria, della sconfitta, dell'alba o, come in questo caso, del tramonto. Lo stesso Sokurov pare essere giunto a uno snodo fondamentale per la sua carriera, la quale, se le premesse sono quelle respirate nella parte conclusiva di questo piccolo gioiello, toccherà anche l'approccio stesso al mezzo cinematografico, la tecnica così come "il cuore". È possibile che l'ammissione dolente di Hirohito, tagliato da una spada di luce di fronte a una luna degna degli antenati samurai, e il suo definitivo ritorno all'umanità siano da legare indissolubilmente alle future scelte e cifre stilistiche dell'autore che con tanta passione pare averlo ritratto come in un quadro espressionista, senza risparmio per quelle che saranno le strade intraprese, in futuro, dal miglior regista russo degli ultimi quindici anni.

Spendo l'ultima analisi ripiegando proprio sui primi istanti di Hirohito da "uomo", quando, travolto dallo stupore per la felice prospettiva di ritrovare i figli, si trova di fronte alla notizia della morte del giovane che, solo poco tempo prima, era stato incaricato di registrare il suo già citato messaggio per la resa. Hirohito si rivolge al suo primo servitore chiedendo se qualcuno, tra loro, avesse cercato d'impedirne l'estremo gesto. "No, nessuno". È la laconica risposta. Qualcosa è morto nel Giappone allora, così come in Hirohito, in Sokurov, nel pubblico e, senza dubbio e più d'ogni altro, nel giovane disposto a dare la vita per il suo Dio.

 


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