Triage, ovvero la guerra di Colin PDF 
Gianmarco Zanrè   

Pellicola inaugurale dell’ultimo Festival di Roma, Triage rappresenta, per Denis Tanovic, premio Oscar con il sopravvalutato No Man's Land, una sorta di ritorno alle origini, nonché il tentativo di rilanciare una carriera che appare ferma da troppo tempo, persa nei meandri di un talento illuso da buona parte della critica internazionale e dai riconoscimenti piovuti con troppa fretta. Una sorta di rivincita, di liberazione, di ricerca tutta volta a dimostrare che non è stato un caso. O solo ed esclusivamente fortuna. Una prova importante, per non voler scomodare termini quali “definitiva”, per divenire a tutti gli effetti un regista di culto o rimanere prigioniero nel limbo delle promesse mai mantenute. Una pellicola dalla grande produzione, arricchita da un cast di prim'ordine, pronta a sbancare ai Festival che hanno fatto del cinema d'autore la loro stessa ragione d’essere. Eppure, nonostante la presenza di leggende quali Christopher Lee e di una grande prova attoriale quale quella di Colin Farrell, Triage resta sostanzialmente un fallimento.

Prendendo esempio, crudelmente o cinicamente che sia, dal medico che nella disperazione dell'ospedale da campo in Kurdistan traccia una linea di demarcazione fra speranza e morte a suon di proiettili, e rapportando il “triage” al cinema di guerra, la pellicola di Tanovic avrebbe certo un triste destino: il valore del dramma, sia esso umano, cinematografico o reale, appare poco sincero e fin troppo costruito, tanto da pesare sulle pur larghe spalle di un ispiratissimo Farrell, che, tuttavia, non riesce, da solo, a sopperire alle mancanze di una regia che appare priva di personalità e coraggio, troppo furba per disegnare una parabola con la potenza necessaria per trasmettere un messaggio universale, cinematograficamente parlando. Proprio in merito a quest'ultima affermazione, occorre prendersi un momento per riflettere sulla duplice natura del messaggio: il tema della contrapposizione alla guerra è da sempre alla base di molte delle pellicole di genere, e porta su di sè un bagaglio assolutamente complesso nella sua gestione, capace di andare oltre le citazioni, le inquadrature ad effetto, i sensi di colpa e le morti. L'arma a doppio taglio di una pellicola che tocchi argomenti come questo è pericolosa prima di tutto per il regista, che se incapace di gestire, narrare, portare – senza indirizzare – lo spettatore rischia l’inesorabile collasso. In questo è esempio illuminante il rapporto fra Mark Walsh/Colin Farrell e il suo compagno perduto, che dovrebbe assurgere a monito per i dispersi sui campi di tutto il mondo, siano essi soldati, giornalisti, medici o civili, e che, al contrario, diviene un mero veicolo della drammatizzazione ad effetto atta a sconvolgere il pubblico sfruttando l'immedesimazione con il protagonista, roso dai traumi e dai sensi di colpa. Un effetto che poco si addice al cinema e alla sua forma, creata piuttosto per trasformare il microscopico in modello per il macroscopico agli occhi di tutti gli spettatori, e di ognuno rispetto alla propria esperienza, vita e posizione.

Dunque, la sensazione che serpeggia è che la guerra sia ingiusta per Mark/Colin, e solo per lui, non per il Kurdistan, le vittime e le bombe: un'immedesimazione in parte necessaria per il mezzo cinema, ma alquanto superficiale e rischiosa se va oltre il controllo del suo direttore d'orchestra, quel regista che, almeno sulla carta, avrebbe il compito di raggiungere il suo pubblico senza dover ricorrere, o non completamente, alla forza espressiva del suo “eroe” per catturare pubblico e giurie. A sfavore di Tanovic giocano anche gli illuminanti esempi dei grandi capolavori del cinema di guerra antimilitarista, da Orizzonti di gloria di Kubrick fino al recente dittico eastwoodiano Flags Of Our Fathers/Lettere da Iwo Jima, per non dimenticare pietre miliari come La sottile linea rossa o Il grande uno rosso, rispettivamente firmate Malick e Fuller. L'anima di questi fulgidi esempi di cinema risiede, in effetti, nella loro capacità di illustrare, coinvolgere e colpire senza necessariamente ricorrere ai colpi più bassi del melodramma o dell'enfatizzazione eccessiva dei temi, difetto ben mascherato – ma mai abbastanza – in Triage dalla presenza, per l'appunto, di Farrell. L'autorialità del progetto, così come l'approccio registico, e l’ottimo spunto della storia, non bastano a coprire una carenza di linguaggio e, più ancora, di capacità di gestione dei temi trattati, così importanti da inficiare la riuscita dell'intero progetto. Così come è stato per Lebanon, pur vincitore all'ultimo Festival di Venezia, anche in Triage il difetto primario pare risiedere nell'incapacità del regista di sfruttare le qualità intrinseche del suo essere narratore, portando il tema della pellicola ad un livello superiore, addirittura quasi indipendente dalle immagini stesse, o, in assenza di questa emancipazione, almeno in grado di “ingannare” il pubblico mostrandosi più libero di quanto in realtà non sarà mai.

Lo stesso dramma del Kurdistan e della guerra che vede coinvolti i due protagonisti, punto di non ritorno anche per individui, gli stessi reporter, abituati agli orrori più raccapriccianti dei campi di battaglia in tutto il mondo, passa in secondo piano rispetto alla voglia di scuotere del regista che, pur senza le colpe e gli eccessi imputabili al già citato Leone d'Oro di quest'anno, toglie alla pellicola la potenza che vorrebbe la contraddistinguesse, rendendola a tutti gli effetti non solo un esperimento fallito, ma anche, e soprattutto, uno spreco di potenziale capace di deludere non solo i fan, ma gli stessi detrattori di Tanovic, che certo riuscirebbero a guardare sotto una nuova luce anche gli altri lavori del cineasta a fronte di una rinascita stilistica e di approccio. Lo stesso ruolo del reporter, dal Joker kubrickiano agli esempi concreti dei più grandi fotografi di guerra, offre spunti unici ed interessanti a proposito dell'ottica attraverso la quale si osservano il conflitto e le sue dinamiche, non ultima la partecipazione/non partecipazione dei reporter stessi, capaci di mettere a rischio la propria vita come i combattenti eppure figli di una tradizione che non prevede violenza nell'azione, ma solo testimonianza, presenza, memoria. Grandi assonanze con il ruolo del regista. E dissonanze profonde con il carattere quasi “rinunciatario” di Tanovic, troppo intento qui a soddisfare produzione, giurie e platee per ricordare che spesso la differenza è data dall'attenzione a soddisfare, curare, seguire la pellicola stessa, senza affidarla totalmente a momentanei sconvolgimenti – di nuovo torna il ruolo assunto dal medico emblema del “triage” – e ad un pur ottima forma protagonista.

Farrell, indiscutibilmente, porta un peso che corre parallelo al trauma vissuto dal suo Mark Walsh e che risulta eccessivo da portare sulle spalle: e mentre il personaggio è guidato ad una salvifica confessione da un mentore a tratti troppo ingombrante, ma comunque funzionale, l'uomo e l'attore sono abbandonati a se stessi, privando il film di quella componente corale che caratterizza il cinema anche di fronte alle grandi prove delle più grandi individualità – si pensi a Welles e Kubrick –, e che lo definisce come uno dei mezzi di comunicazione più efficaci della storia recente dell'uomo. Soffermandoci per un momento sul ruolo di Christopher Lee nei panni di Joaquin Morales, troviamo lo spunto per un approfondimento che in Triage pare fermarsi sempre nel momento in cui la sceneggiatura – firmata dallo stesso regista – è sul punto di incorrere nel rischio di entrare in un terreno troppo ostico per una pellicola che vuole sconvolgere, per l'appunto, senza mettersi eccessivamente in gioco. Il percorso di Walsh verso la confessione, e il ritrovamento della sua perduta umanità, avviene per mezzo di un confronto con un vecchio psicanalista dal passato legato a doppio filo ai grandi dittatori di regime: cosa potranno avere in comune un reporter di prima linea e pericolosi criminali di guerra? Quali meccanismi portano l'uomo ad affrontare la colpa e la redenzione? È la guerra a toglierci le gambe e ad impedirci di camminare? O l'impossibilità, tutta umana, di non nuocere al prossimo? Interrogativi importanti, che messi al servizio di uno script e una tecnica di narrazione sicura e decisa, potrebbero potenzialmente divenire materia per un grande film. Eppure, anche in questo caso, l'operato di Tanovic in sede di scrittura appare deficitario almeno quanto quello dietro la macchina da presa, quasi fosse timoroso di osare, indagare un passo oltre e cercare una sua risposta effettiva e di certo più vera di un suggerimento, o un'imbeccata, per critica e pubblico.

Dunque, se il “triage” del cinema non salva, ma neppure condanna, questo melò ritmato da esplosioni, quello, più spietato, della frontiera, che passa anche da questo Kurdistan di Tanovic – che certo è più roseo su pellicola che nella realtà –, e che ha nella scelta estrema di speranza o morte la linea d'ombra dell'orrore coppoliano, non dà una sola chance a quest'ultima fatica del cineasta bosniaco. Ma non cada nell'errore di demordere, Denis Tanovic, perché l'impressione che si ha, pur di fronte ad un'opera mediocre, è di un talento ancora inespresso, in attesa di esplodere in quello che potrebbe essere il suo film migliore, e soprattutto, il primo in grado di rompere gli schemi e le convenzioni volontariamente ed involontariamente dettate dal successo che ebbe il suo primo lavoro distribuito a livello internazionale, quel No Man's Land che sbancò l'Academy nel 2001, e che fece subito parlare di Tanovic come di una sorta di novello Kusturica. La strada per giungere all'autore di Underground e Gatto nero gatto bianco è ancora inesplicabilmente lunga e tortuosa, ma non è detto che, in futuro, non ci aspetti la svolta che renderà Tanovic il nuovo nome di riferimento per il cinema balcanico.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.