Liegi. Lorna è una giovane immigrata albanese che coltiva il sogno di poter aprire un locale tutto suo, in comproprietà con il fidanzato Sokol. Ma per far questo ha bisogno di soldi perché quelli guadagnati lavorando duramente in stireria non bastano. Lorna decide così di contrarre un matrimonio bianco con un tossicodipendente emarginato, Claudy. La sua è una decisione consapevole e cinica, figlia degli accordi pattuiti con il racket che prevedono la rapida morte del posticcio marito di modo tale che la vedovanza le permetta di sposare un altro uomo, un mafioso russo bramoso della cittadinanza belga, in grado di ricompensarla lautamente. Ma la svolta emotiva nei confronti del marito, non più mero strumento per inseguire i suoi intendimenti, e un’overdose pianificata per sbarazzarsi di Claudy con la sua complicità, innescheranno un meccanismo a spirale che la chiuderà sempre più nei suoi errori e nelle sue paure. Dopo aver trionfato al Festival di Cannes con il premio per la miglior sceneggiatura, arriva in sala il sesto e nuovo film dei fratelli belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne, in passato già vincitori della Palma d'Oro per lo straordinario Rosetta e il ricercato ma deludente L’enfant. Difficile ignorare il suggestivo titolo originale, Le silence de Lorna (ben più accomodante la traduzione italiana Il matrimonio di Lorna). Perché è dal silenzio che bisogna partire. Un silenzio che in superficie non esiste: Lorna discute, fa domande, risponde, parla con se stessa, come se di fatto la parola rappresentasse un legame prezioso che le permette di continuare a vivere. Il silenzio di Lorna è un’alienazione sociale, un’assenza interiore in cui la parola espressa è un tenue eppur solido tentativo di far tacere una coscienza, di reprimere un tumulto. Un silenzio che accompagna la doccia e la tisana calda la sera, prima di addormentarsi, e che riequilibra il quotidiano susseguirsi di eventi affrontati a testa bassa, sempre pervasa da una sottile ma costante sensazione di precarietà. La parola diventa azione poiché non esiste il tempo di fermarsi a riflettere o interrogarsi, e la metamorfosi stilistica, meno ansiosa, che i fratelli Dardenne attuano con questo film è lì a ricordarcelo. Non soltanto perché la frenesia della camera a mano (qui presente nella sua versione 35 mm) cede sovente il passo al piano fisso senza perdere comunque in minimalismo. Ne Il matrimonio di Lorna ciò che appare immediatamente diverso rispetto alle opere precedente è soprattutto il lavoro sul tempo narrativo, sensibilmente rallentato, una dimensione in cui la camera – con l’utilizzo di campi medio-lunghi – diventa percettibilmente più testimone che attrice. Il cinema dei Dardenne, pur nei loro affreschi di veri e propri microcosmi di sventura, si apre così a scenari più vasti, ad orizzonti più aperti, toccando fisicamente quella globalizzazione fatta di un delinquente belga, una giovane albanese e un mafioso russo. Un cinema che quindi non si compiace, ma volge lo sguardo altrove per riprendere la vera natura di finestra spalancata sul reale. Quel reale che ci chiama all’azione, ad essere complici di un mondo brutale dove la morale comune si è dissolta, che conosce solamente una legge, quella del profitto, e possiede solamente un desiderio, quello di arricchirsi al più presto senza curarsi delle conseguenze sugli altri, poiché è proprio a costo della vita altrui che questo arricchimento può compiersi. Gli scrupoli di Lorna, combattuta tra l’amore e le regole dell’ambiente in cui vive – tema (e ossessione) peraltro già proposta dai Dardenne in La Promesse del 1996 – rappresentano il baratro che la separa da Fabio, tassista imbroglione che gestisce la giovane donna come un piccolo capitale nella speranza di entrare a far parte definitivamente della mafia russa proprio grazie a un nuovo matrimonio bianco di Lorna con un ricco oligarca. Notevole le interpretazioni di tutti i protagonisti, a partire dalla bella e delicata esordiente Arta Dobroshi, originaria del Kosovo, che si rivela già dalle prime battute una vera scoperta, abile nel portare in scena una fragilità umana e sociale che non può lasciare indifferenti; passando per il lacerante Jérémie Renier, attore feticcio dei Dardenne, come sempre un punto saldo con il suo lavoro di spessore e duttilità. Sino ad arrivare all’italo-belga Fabrizio Rongione, perfetto nel ruolo del misterioso tassista malavitoso. Sorprendente l’assegnazione del premio per la miglior sceneggiatura a Cannes 2008: la sceneggiatura (non sorretta peraltro dall’essenzialità del montaggio), con i suoi innumerevoli buchi, i passaggi incerti e le brutali ellissi, è talvolta imbarazzante. Nulla però che possa intaccare questo gradevole lavoro in cui la speranza di un ottimismo artificioso e la vagheggiata redenzione vincono l’oppressione della realtà. TITOLO ORIGINALE: Le silence de Lorna; REGIA: Jean Pierre e Luc Dardenne; SCENEGGIATURA: Jean Pierre e Luc Dardenne; FOTOGRAFIA: Alain Marcoen; MONTAGGIO: Marie Hélène Dozo; PRODUZIONE: Francia/Gran Bretagna; ANNO: 2008; DURATA: 105 min.
|