Macário è un tipo contemplativo. Anziché buttarsi nella vita con la passione dei giovani rampanti della sua età, preferisce fermarsi ad osservare il mondo dalla finestra. E la finestra che sceglie è quella dell’ufficio dell’azienda dello zio Francisco, per cui lavora. I suoi occhi si fermano ogni giorno su un’immagine che lo cattura e lo trasporta fino a travolgerlo nel vortice del movimento sornione di un ventaglio animato da una piuma che vezzosamente sfiora l’oggetto del suo desiderio: una sconosciuta bionda, Luisa. Sventolando l’antica arma di seduzione, Luisa si affaccia ogni giorno dalla finestra del suo appartamento, quasi fosse un tacito appuntamento, e anche lei osserva con desiderio un giovane uomo: Macário. Inizia così tra loro una tormentata storia d’amore, che il protagonista sceglierà di raccontare con disarmante sincerità ad una sconosciuta compagna di viaggio incontrata in treno durante un viaggio che lo porterà lontano da quel dolore d’amore che lo strugge.
Ultracentenario, libero della libertà di raccontare che offre la consapevolezza schietta della età avanzata, Manoel de Oliveira non smette di sorprendere e ci conquista magnificamente con una pellicola dal taglio innegabilmente teatrale, imbastendo sulla capacità attoriale del cast e sulla padronanza del mezzo filmico un dramma da camera misurato e composto, dal ritmo e dalle atmosfere goethiane. Quello di Manoel de Oliveira è un cinema che ha le sue fondamenta nell’uso metaforico e allegorico del linguaggio, e questa ultima pellicola (realizzata per la verità nel 2009, ma solo quest’anno giunta nelle sale italiane) non fa eccezione. Le inquadrature sembrano delle istantanee di interni scattate furtivamente, che c’introducono nelle vite di personaggi borghesi dalle anime straziate e in preda a malesseri esistenziali che li trascinano in inevitabili discese spiraliformi verso un baratro che sembra ineluttabile. È soprattutto nelle scene in interno che appare evidente questo aspetto, nel contrappunto tra i loro toni riscaldati e gli esterni grigi e brumosi di una Lisbona che, cara al veterano regista, è osservata quasi scientificamente, sebbene con un affetto profondo.
Abdicando volontariamente all’obbligo di spettacolarizzare la costruzione dell’impianto narrativo e di sorprendere lo spettatore con un rovesciamento della trama, o con un colpo di scena, de Oliveira applica alla messa in scena una precisa scelta stilistica, di modo che la storia e i personaggi che ne fanno parte possano confluire in un unico e coerente meccanismo armonico in grado di trovare in se stesso i fondamenti (narrativi e stilistici) su cui sorreggersi. Attraverso flashback sul passato più o meno recente della sua storia, il racconto sincero e disarmante del giovane protagonista (interpretato dal nipote del regista, Ricardo Trepa) si dipana in una trama che ci aspettiamo da un momento all’altro stia per precipitare in semplicistiche conclusioni fataliste, inevitabili nel susseguirsi di azioni e reazioni che accadono, nonostante tutto, con uno sviluppo narrativo costante e coerente che come una goccia d’acqua scava nella roccia il solco, lenta e inesorabile. Tuttavia, sebbene tutto sia quasi dolorosamente coerente, lo spettatore non è immune dalla speranza che il protagonista faccia scelte diverse rispetto alla logica che gli sottende, partecipando vivamente del suo pathos. Ne nasce un racconto che, pur mettendoci di fronte alla ineluttabilità degli accidenti della vita, sembra portare lo spettatore ad interrogarsi sulle possibili conseguenze di scelte alternative. Quasi un percorso psicoanalitico di indagine introspettiva guidata per immagini.
TITOLO ORIGINALE: Singularidades de uma rapariga loura; REGIA: Manoel de Oliveira; SCENEGGIATURA: Manoel de Oliveira; FOTOGRAFIA: Sabine Lancelin; MONTAGGIO: Manoel de Oliveira, Catherine Krassovsky; PRODUZIONE: Portogallo/Francia/Spagna; ANNO: 2009; DURATA: 64 min.
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