Da Alphaville a Zeroville: il saccheggio di Steve Erickson PDF 
Tiziano Colombi   

Vikar arriva a Los Angeles alla fine degli anni Sessanta, sul cranio ha un tatuaggio con i volti di Elizabeth Taylor e Montgomery Clift nel film Un posto al sole (George Stevens 1951). Hollywood è finita. Il tempo ha fatto a pezzi le star, i corpi di Jayne Mansfield a Natalie Wood sono epitaffi su lapidi di marmo e ombre sulle pellicole nei magazzini delle case di produzione. A Vikar importa poco, scende nella terra del cinema perché vive nel cinema: sogno, realtà e finzione sono i territori confusi che popolano i suoi pensieri, nessun confine tracciato ne segna il limite. Vikar è uno di noi.

Come scrive Igino Domanin nella sua recensione del testo di Steve Erickson su Carmillaonline, “La nostra vita quotidiana è saturata dalle immagini. La vita percettiva, quella che si svolge anonima e impulsiva nelle pieghe della carne, è sempre più diretta e sollecitata dai dispositivi tecnologici. Guardiamo sempre più le immagini e sempre meno le cose. Lo schermo si sostituisce al paesaggio”. Nessuna via d’uscita, Johann Gutenberg è stato preso a schiaffi da Edison e i fratelli Lumière. Tutto in noi è una derivazione del visibile, i nostri cervelli sono archivi zeppi di sequenze, fotogrammi, intere bobine. Steve Erikson con Zeroville mette in scena un romanzo costruito per rapide sequenze, montato come un film di  Luis Buñuel. Dentro c’è la storia del cinema, la nostra storia: le sue icone, i suoi prodotti e i meccanismi fuori dalla scena, quello che sta dietro, davanti e dentro la macchina presa. Quasi uno studio antropologico sulla composizione della mente degli uomini del Novecento. Nessun trattato per cinefili, il cinema non è un affare per giornalisti specializzati o direttori di festival, il cinema è l’epica delle prostitute, la mitologia dei portieri d’albergo. Se Edipo, Enea e Ulisse hanno dei successori quelli sono D. W. Griffith, Carl Dreyer e Martin Scorsese. Lo dice chiaro il Vichingo, l’unica presenza maschile del romanzo che riesce a tirare fuori Vikar dal suo film quotidiano: “questo stretto di Gibilterra dimenticato da Dio. La sala di montaggio a Madrid. Parigi, Bombay, Tokio, quella cazzo di Norvegia, ovunque – tutto è Hollywood, Hollywood è dappertutto, l’unico posto al mondo che non è più Hollywood è Hollywood stessa”.

Erickson, secondo la critica, dovrebbe essere uno scrittore "Avantpop", come lui Jonathan Lethem,  Matt Ruff, Patricia Anthony, Lewis Shiner, Joe R. Lansdale, William T. Vollmann e altri. Tutti figli minori dei padri del postmodernismo Kurt Vonnegut e Thomas Pynchon. Il lettore può tranquillamente trascurare questo elenco, dentro il luna park di Zeroville ci sono dolcetti per tutti. Vikar è un punk che poga sotto il palco del CBGB a New York (riassunto delle puntate negli scritti di Lester Bangs e in Plese Kill Me di McNeil Legs e McCain Gillian) e trova il tempo di farsi raccontare il cinema del taglia e cuci da Dotty, una montatrice di settant'anni che ha lavorato con i più grandi (vedi Walter Murch e Michael Ondaatje nel fondamentale Il cinema e l’arte del montaggio). La tela che tiene insieme il caos della narrazione è la contaminazione.

Se state al gioco e tenete gli occhi aperti troverete, nelle pagine di Erickson, un pezzo di voi stessi.    

TITOLO: Zeroville; AUTORE: Steve Erickson; EDITORE: Bompiani; ANNO: 2008; PAGINE: 413; PREZZO: 19.50 €

 


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