La Passione di Grégoire: Le père de mes Enfants PDF 
Nando Dessena   

Le père de mes Enfants è una pellicola che mette in scena la passione, quella ossessiva, bruciante, che divampa inesorabile, alimentata da quell’eccezionale combustibile che è il nitrato d’argento. Si tratta, ovviamente, dell’amore per il cinema. Mia Hansen-Løve, alla sua seconda regia, decide di raccontare la passione di Humbert Balsan, produttore cinematografico d’oltralpe che ha canalizzato i propri mezzi (mettendosi in gioco fino alla fine, si è tolto infatti la vita ad appena cinquant’anni completamente annichilito dai debiti contratti) verso un cinema lontano dagli schemi consolidati e dai rassicuranti lidi del circuito mainstream, scopritore di talenti del calibro di Chahine, Suleiman e Claire Denis, e che avrebbe dovuto produrre, peraltro, Tout est pardonné (2007), l’opera prima della giovane regista francese.

Finché morte non ci separi insomma. Un matrimonio burrascoso quello di Balsan con la Settima Arte, che Le père de mes Enfants ripercorre nella fase finale della vita del produttore, quella più buia e impietosa, e che mostra tuttavia con maggiore potenza l’amore disperato di un uomo, Grégoire Canvel (Louis-Do de Lencquesaing), e la forza della moglie Sylvia (Chiara Caselli), che dopo la sua morte tenta in ogni modo di recuperare le sorti della Moon Films, la casa di produzione di Grégoire. Mia Hansen-Løve realizza un intenso e vivido affresco con piccole pennellate, evitando il registro patetico e facili sensazionalismi. L’esasperazione melodrammatica viene agilmente scansata, mentre le poche note di appassionato lirismo sono affidate alla potenza dell’immagine/affezione di alcuni primi piani della figlia maggiore di Grégoire, Clémence (Alice de Lencquesaing), estrapolati con dolcezza dall’amaro scorrere dello spazio/tempo filmico ed incorniciati con calcolato rigore, o del bucolico bagno di Valentine (Alice Gautier), la seconda figlia, nella lattiginosa acqua termale durante una breve vacanza. Quasi una regia senza regia, uno stile asciutto che mutua il realismo del migliore Olivier Assayas e che è valso a Le père de mes Enfants (vincitore anche di un Prix Lumière per la migliore sceneggiatura) il Premio Speciale della Giuria nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes.

Affrontare la realizzazione di un film su un intreccio così scarno, decisamente low concept e ancorato alla realtà, è una scelta coraggiosa, che richiede un rigore oltre misura, e Mia Hansen-Løve sceglie la difficile strada della dilatazione, della lentezza estrema, richiedendo agli attori una prova straordinaria. La fisicità contratta e nervosa con la quale Chiara Caselli esplicita il dolore di Sylvie Canvel regala al personaggio una sofferente plasticità, quasi che le lacrime scorrano su un volto di vetro, duro in apparenza, ma che rivela tutta la propria fragilità, imbronciato anche nei momenti più felici, in qualche modo espressione squadrata della più viva determinazione e della ferrea volontà di continuare in ogni caso.

L’incipit della pellicola presenta un pedinamento quasi zavattinaniano di Grégoire e del suo onnipresente telefono cellulare, che funge da nodo centrale da cui si diramano le due esistenze parallele del personaggio: l’instancabile produttore cinematografico oberato di lavoro e il marito e genitore premuroso che tuttavia non riesce ad avere abbastanza tempo da dedicare alla moglie e alle figlie. Grégoire riesce subito simpatico, anche grazie alla sobria interpretazione di Louis-Do de Lencquesaing, che articola l’ironia e la drammaticità dell’uomo qualunque nella semplicità dei piccoli gesti quotidiani. Vediamo una persona che ama il proprio lavoro e la propria famiglia e vive in maniera iperattiva la propria esistenza, senza un attimo di tregua, schiacciato sotto un carico di responsabilità e di aspettative che cerca di non deludere, circondato da collaboratori che si dimostrano più amici che colleghi. La razionalità e la pragmaticità sembrano essere le marche caratteristiche di un uomo che ha la forza di guardare avanti cercando di non sacrificare i propri sogni per martirizzarli nella logica del capitale. La difesa ad oltranza del proprio catalogo di film dal valore di mercato pressoché nullo, e soprattutto la capacità di credere fino in fondo nell’utopia di un cinema d’arte ancora possibile, conducono Grégoire all’inevitabile crollo.

Il montaggio e i movimenti di macchina sono perfettamente funzionali al minimalismo dell’istanza narrativa e la trasparenza del découpage di stampo più classico allontana la misé en scene dall’iconoclastìa della nouvelle vague e dallo sperimentalismo. Mia Hansen-Løve sembra puntare ad una enunciazione sottovoce, se non addirittura muta, e palesa la propria impietosa vocazione documentaristica nei pochi secondi che seguono il sostenuto silenzio successivo al fragore dello sparo che mette fine alla vita di Grégoire. La rappresentazione dell’ultimo istante, quello qualitativo allo stato puro, quasi conserva in Le père de mes Enfants l’oscenità che Bazin osservava nei documentari sulla corrida, quell’oscenità che trascende l’orrore oggettivo per migrare nell’orrore ontologico della morte filmata. La macchina da presa indugia per un istante interminabile sul corpo accasciato prima di staccare, con crudeltà, sulla vita degli altri, quella che continua, senza nessun elogio, senza nessuna sottolineatura di sorta, offrendo uno spettacolo oggettivamente intollerabile proprio in quanto antispettacolare e affrancato dall’estetismo che edulcora, anestetizzando lo spettatore, anche la rappresentazione del più cruento dei massacri.

Il rifiuto dell’immagine-immagine, del frame bello in sé, dell’immagine giusta, è giocato dunque in favore di una conquista, di un recupero della verità delle cose, della realtà e del suo intrinseco splendore. Le père de mes Enfants, film dichiaratamente sul cinema, concentra l’attenzione sulla base fotografica del medium, sull’attitudine alla testimonianza della macchina di presa come apparato di registrazione del reale. La pellicola instaura con la realtà un rapporto intimo, non occasionale, andando ad incrementre le proprie potenzialità artistiche nel momento in cui viene rispettata tale vocazione, a metà strada tra un realismo esistenziale e un realismo funzionale. La coincidenza di vita e spettacolo è determinata dall’azzeramento dello spazio tra questi due universi, ottenuto prediligendo uno sguardo denotativo ad uno connotativo. La qualità precipua della regia di Mia Hansen-Løve è quella di riuscire a mettere in scena una realtà che sembra raccontarsi da sola, grazie all’attenzione dedicata ai dettagli apparentemente banali che rivelano la densità pressoché illimitata della porzione di mondo incorniciato dalla macchina da presa.

Tuttavia, il rapporto di Le père de mes Enfants con il mondo fenomenico non si limita alla mera riproduzione, spingendosi verso il recupero del senso, delle dinamiche degli accadimenti ripresi, verso la logica che si cela dietro l’apparenza. Il realismo di Mia Hansen-Løve, pur conservando quell’immediatezza e quella freschezza che gli impediscono di andare verso la deriva dello stile, si fa comunque critico, nel momento in cui, inevitabilmente, riorganizza ed elabora il materiale registrato attraverso il linguaggio che è proprio del cinema.

 


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