Hugo Cabret, cinema d’arte per famiglie PDF 
Umberto Ledda   

Poi succedono cose che uno non si aspetta. Scorsese lo si era lasciato con Shutter Island, e cioè con un Leonardo di Caprio fuori di testa che vagava per un manicomio pieno zeppo di presagi oscuri, passati inaccettabili, colpe, conflitti e dannazioni. Poi se ne torna con un film che ha per protagonista un furbo orfanello alla Dickens che vive rubacchiando in una stazione ferroviaria di Parigi negli anni Trenta, dove ci sono un poliziotto con annesso cane da orfani che gli dà la caccia, un vecchio giocattolaio deluso dalla vita, e un’altrettanto furba ragazzina che lo aiuta nelle sue avventure: che vanno dal far funzionare un automa scrittore al ridare fiducia al regista Georges Méliès (che altri non è se non il giocattolaio), che nel frattempo si è ritirato perché il pubblico non lo voleva più. Sentimenti, avventura e fantasy, e alla fine tutti felici e contenti.

È naturale, a un primo impatto, considerare Hugo Cabret come un film per famiglie, nella fattispecie il primo film per famiglie di Martin Scorsese dopo quarant’anni di carriera dedicata a far tutt’altro. La motivazione di tutto questo è semplice: Hugo Cabret è davvero un film per famiglie. Gli elementi ci sono tutti: un plot complesso e un po’ inverosimile, un lieto fine monumentale e smaccatamente hollywoodiano, una struttura canonica e standardizzata, che senza troppe invenzioni si affida alle scene classiche nei momenti tradizionali, con i giusti inseguimenti, i giusti cliffhanger e la giusta tensione. C’è pure l’immancabile storia d’amore che sembra germogliare, ovviamente platonica, fra i due giovani protagonisti. Ci sono i bambini, che sono buoni anche e soprattutto quando sono orfani, ci sono messaggi direttissimi sull’importanza della famiglia, sui padri e sul dolore dell’abbandono. C’è il gusto per un fantastico gentile, che non diventa mai inquietante, con appena una venatura scenografica fra il gotico e lo steampunk, che ultimamente piacciono molto in questo genere di film; c’è un generico smorzamento dei conflitti (anche rispetto al romanzo illustrato di Brian Selznick, che comunque non era certo crudele o iperrealista), quel tipico sapore di sognante ottimismo etico che si risolve in un cattivo che ha principalmente il ruolo di spalla comica di alleggerimento, e che comunque alla fine diventa buono (perché dopo il film bisogna andarsene a casa sereni senza domande né dolore). E ancora: le agnizioni e le finte morti, la produzione magniloquente su ambientazione d’epoca, la scelta delle inquadrature spesso suggerita in favore del 3D (per il suo effetto e non per il suo senso o per il suo ruolo nella messinscena). Cinema per famiglie, appunto: meraviglia delle cose viste, transfert da una parte all’altra dello schermo, generico incoraggiamento alla vita. Intrattenimento. Una roba che Scorsese non aveva mai fatto e non s’era mai sognato di fare. Quando il film è stato annunciato, veniva quasi da immaginarsi come il vecchio regista sarebbe riuscito a rendere inadatta ai bambini una storia che era costruita apposta per loro.

La questione però, con Hugo Cabret, non è tanto di che cos’è invece di essere un film per famiglie, ma di che cos’è oltre a essere un film per famiglie. Perché è evidente che lo scopo di Scorsese non era sovvertire i giochi e parodiare o corrompere la materia di base, anzi. Ma è vero che nelle due ore di montato c’è davvero di tutto, ben più di quanto non ci sia di solito in un prodotto del genere. Prima di tutto, com’è ovvio in un film che ha fra i protagonisti Georges Méliès, c’è il cinema. Ce n’è così tanto che pare di assistere a un documentarino didascalico sui primi decenni del Ventesimo secolo. Oltre a essere un film per famiglie, Hugo Cabret è anche un omaggio al cinema della meraviglia e del sogno (i due protagonisti a un certo punto leggono un libro che si intitola L’invenzione dei sogni, che fra l’altro è un gran bel titolo per un tomo sulla settima arte). Quel cinema che non aveva ancora avuto il tempo di indulgere in menate intellettuali ed era pura e semplice magia, spettacolo e fantasia sfrenata: quello degli omini sulla luna di Méliès, appunto. Il circo, roba per famiglie e per bambini con gli occhioni sgranati, un mondo di stupore primario, di purezza ancora incontaminata. L’inizio di ogni cosa, perfino per uno come Scorsese, che invece ha usato il cinema per farci, quasi sempre, tragedie.

In Hugo Cabret, comunque, c’è più che un semplice parlare di cinema: lo si fa e lo si disfa, lo si mostra nel suo farsi (c’è pure, per non farsi mancare nulla, un flashback metanarrativo dove lo stesso Méliès ripercorre i suoi trucchi, dalle cialtronate da mago fino ai capisaldi della settima arte, come l’intuizione delle potenzialità del montaggio). Scorsese si trova fra le mani un film sul cinema e ne sfrutta le potenzialità nel nome di un divertimento spesso bambinesco, creando e ricreando le pellicole di cent’anni fa. Rifà L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, quello che nel 1896 aveva terrorizzato gli spettatori in sala, ma decide che questa volta il treno è davvero pericoloso, e infatti non frena e fa irruzione nella stazione falcidiando gente a caso. Ricrea le scenografie di Méliès in 3D, mostrando di nuovo in sala i suoi film, concedendo loro spazio in una nuova veste: un omaggio al quadrato, insomma. E cita film e storie e avventure, a decine. Ma non basta: citazioni a parte, Scorsese ci va giù duro anche di messinscena. E oltre alle molte scene in cui i personaggi guardano film, con tutte le loro reazioni a fare da controcampo alle immagini che vedono, costella la sua pellicola di sguardi filtrati: Hugo che guarda dalla serratura, Hugo che guarda da dietro i quadranti degli orologi, che spia le storie di coloro che lavorano alla stazione attraverso le grate, eccetera. In pratica, trasforma il suo giovane protagonista nell’immagine sfumatamente simbolica dello spettatore stesso. Guardare la realtà, guardare le storie degli altri, senza poterle cambiare: l’idea del vedere la vita come in uno specchio che in realtà poi è uno schermo, o viceversa. Ecco, queste robe, in un film per famiglie che funzioni, di solito non ci sono. La cosa buona del trovarsele davanti in un film per famiglie è che se non hai voglia di prendere appunti basta che non ci fai caso e ti diverti uguale.

E non è ancora tutto. Chissà, forse Scorsese stesso era spaventato dall’idea di mettersi a lavorare su uno script che apparentemente sembrava troppo semplice, troppo commerciale per lui, e allora per evitare che qualcuno potesse accusarlo di qualcosa ci ha messo anche più materiale di quanto non ce ne fosse negli ultimi suoi film. Hugo Cabret ha una densità di messinscena inusuale anche per la media del cinema d’autore. Perché ci sono, fra gli altri, anche un topo e un automa, una chiave a forma di cuore e un sacco di orologi. Prima di tutto, gli orologi. Hugo è un orologiaio come lo era il padre defunto: con gli ingranaggi è un genio, così come è un genio a riaggiustare i meccanismi rotti. E fin qui niente di strano. Poi c’è l’automa, un omino metallico, unica cosa lasciatagli dal padre. È rotto, e Hugo passa buona parte del suo tempo a rubacchiare ingranaggi in giro per aggiustarlo, per ridargli la vita, visto che l’automa è sostanzialmente il suo unico amico e incarna la figura paterna. Il suo scopo, almeno all’inizio, è dare la vita a un meccanismo fatto di ingranaggi: d’altra parte, suo padre gli aveva insegnato che il segreto è sempre negli ingranaggi, quale che sia il problema, umano o meccanico. E già qui si aprono due piani di riflessione non proprio scontati. Uno è psicologico: come si fa a ridare vita, almeno simbolicamente, a ciò che non c’è più e che il tempo ha spazzato via? Il secondo è metafisico: cosa significa dare la vita alla materia inerte? Dov’è il discrimine fra un meccanismo e la vita? Sul primo piano Scorsese non risparmia niente in fatto di simbolismi e considerazioni sul tempo e sulla sua circolarità: orologi, ovunque, oltre a una messinscena che insiste e strainsiste con la figura circolare, dagli ingranaggi che ruotano all’infinito alla luna di Méliès ai planetari meccanici sparsi qua e là nella scenografia (per suggerire, forse, come la circolarità ciclica del tempo lo renda relativo, e di come nessuna perdita possa essere definitiva). Ma è evidente che a Scorsese interessa di più il piano metafisico: riflettere sul significato stesso di vita, sul discrimine fra ciò che ha un’anima e ciò che non lo ha. Dunque, il topo. Che è uno di quei sorcetti meccanici che vanno con la chiavetta, quelli che si danno ai gatti per farli giocare. Roba inanimata, dunque. Ebbene, c’è una scena in cui Hugo aggiusta il topo, che era rotto. Dopo, il topo funziona, forse perfino troppo. Perché la scena è ritoccata digitalmente, dando l’effetto che il topo non solo funzioni, ma che sia vivo. E Hugo Cabret è un film in cui non c’è così tanta animazione digitale, nonostante quello che ci si potrebbe aspettare, il che rende significativo questo minuscolo intervento: ci teneva proprio, Scorsese, a far vedere un topo meccanico vivo, e non solo funzionante.

Come già nel romanzo di Selznick, gli uomini sono rappresentati come macchine, come una lunga serie di ingranaggi, sia fisici che psicologici, cosa che Scorsese sottolinea dando all’ispettore ferroviario una gamba meccanica e facendo fare al protagonista un sogno cyberpunk in cui si trasforma lui stesso in un automa. Macchine, però vive. La domanda di Scorsese è: dov’è il punto chiave che rende un meccanismo un’anima? Qual è la chiave meccanica che permette agli uomini di muoversi e di agire, e quindi di non essere più meri meccanismi? E quando un uomo si rompe, si può aggiustare come se fosse una macchina? Anche in questo caso si trova davanti due piani di riflessione diversi. Il primo gli serve per mandare avanti il progetto di cinema per famiglie: l’automa si può avviare solo attraverso una chiave a forma di cuore, simbolo a prova di idiota per dire che sono amore, affetto e sentimenti a costituire il discrimine fra pura meccanicità e anima, e che possono servire ad aggiustare un uomo che ha qualche meccanismo che non funziona. E, infatti, anche l’ispettore ferroviario si ravvede grazie allo sguardo di una donna, e il vecchio Georges Méliès viene aggiustato dall’affetto sotterraneo che alcuni cultori mantenevano per la sua opera. C’è però un secondo piano, su cui Scorsese si butta a capofitto. E qui si ritorna ancora al cinema, ma non più come omaggio ma come riflessione, e riflessione anche abbastanza sottile.

C’è nel film questo taccuino dove il padre di Hugo prendeva appunti sull’automa, tirando giù disegni mentre progettava di aggiustarlo. In una delle prime scene, viene sfogliato velocemente, e allora succede che i disegni dell’automa su pagine successive prendono vita, si muovono. In altre parole, accade il cinema, nasce la percezione di una verità a partire dalla somma di tante piccole immagini fisse. E diventa evidente che in testa a Scorsese la questione sul discrimine fra materia inanimata e vita è una questione che c’entra con l’arte. Che si sta chiedendo che cosa, a partire da una serie meccanica di immagini simili, possa fare scattare la scintilla che crea i mondi e fa piangere e immedesimare la gente. E Hugo Cabret diventa una riflessione sulla natura stessa dell’arte, arte intesa appunto come elemento di vita in un universo sostanzialmente meccanico: la magia che irrompe nel susseguirsi causale delle cose, e improvvisamente dà a tutto un senso superiore. Così come il romanzo originale, nel suo essere un ibrido strano fra letteratura e graphic novel, indagava in qualche modo sul rapporto che corre tra la parola e la sua visualizzazione, fra il simbolo linguistico e l’immagine mentale che ne deriva. Scorsese scandaglia i confini fra ciò che è arte e ciò che non lo è, si chiede come possa nascere vita da qualcosa che non è vivo, come possano gli uomini emozionarsi di fronte a un artificio. Come nasce un’opera, e soprattutto perché. E scegliendo Georges Méliès come compagno di viaggio e caso da studiare, le risposte sono evidenti.

Alla fin fine Hugo Cabret è una roba ben strana. Scorsese ci ha buttato dentro di tutto, farcendo la messinscena funzionale del blockbuster con tutta una serie di elementi puramente autoriali, che poi alla fine vanno a ridisegnare il film, almeno per coloro che vogliano vederci qualcosa di più di una storia avvincente con un ragazzino simpatico che alla fine ce la fa. Però c’è un’ultima cosa, e sta nella tipologia di rimandi ed elementi simbolici che ha usato: orologi, allusioni ricorrenti al tempo, rimandi alla circolarità, ingranaggi, una chiave a forma di cuore. Sono per la maggior parte simboli semplici, non particolarmente raffinati, sulla soglia del didascalismo. Le opzioni sono due. La prima: Scorsese invecchia e si lancia in riflessioni alte senza più avere la raffinatezza artistica per farlo. Potrebbe anche essere. La seconda: Scorsese ha preso a cuore l’idea di fare un film popolare, commerciale, adatto a tutti e soprattutto a gente che non ha ancora iniziato gli studi superiori. Ma voleva che non fosse un film commerciale e basta, ma un film di riflessioni, anche. Non un prodotto per bambini in cui spettatori più attenti potessero cogliere un secondo piano di lettura, ma un film in cui i bambini stessi potessero vedere le tematiche sottostanti. E ha fatto in modo che gli strati della messinscena fossero percepibili a chiunque fosse curioso e volesse vederli, senza bisogno di una gran cultura e una laurea in filosofia teoretica: dalla fascinazione per il cinema alle riflessioni sullo scorrere del tempo, a quelle più profonde sulla natura umana di macchine viventi. Cinema d’arte per famiglie, tanto più efficace, a questo punto, proprio per la sua complessità accessibile a chiunque.

 


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