Lo stagista e le Risorse Umane: Edipo in fabbrica secondo Cantet PDF 
Piervittorio Vitori   

Il neolaureato Franck Verdeau ritorna da Parigi in Normandia, nella sua città natale, per intraprendere uno stage dirigenziale presso la fabbrica in cui il padre Jean-Claude è impiegato da 30 anni come operaio. Le sue ambizioni, accompagnate dall’orgoglio paterno e dalla fiducia che sembrano accordargli i vertici dell’azienda, vengono improvvisamente meno quando il giovane scopre casualmente che il suo progetto di applicazione delle 35 ore verrà usato dalla proprietà per spaccare il fronte sindacale e favorire il licenziamento di 12 operai, tra cui Jean-Claude. Deciso a impedire che questo accada, Franck denuncia la situazione: finisce così con il trovarsi in conflitto non solo con il “padrone”, ma anche con un padre che si è ormai piegato al suo destino e si limita a riporre i suoi sogni nel figlio e nella carriera che questi, proprio con la sua reazione, mette a rischio.

Torino, San Sebastian, i César, gli EFA: a dire della fortuna critica che arrise a Ressources humaines all’epoca della sua uscita basterebbe un palmares fatto da svariati premi: per la miglior opera prima, per il miglior regista debuttante, per il miglior attore emergente. Eppure non mancarono all’epoca le voci dissonanti, critiche soprattutto verso l’approccio pedagogico adottato dalla sceneggiatura nei confronti dell’aspetto più esplicitamente politico della pellicola. Ad un livello immediato, infatti, il film si presenta come la storia di una presa di coscienza dell’inconciliabilità tra le istanze produttive della dirigenza e quelle lavorative degli operai all’interno di un sistema che considera questi ultimi appunto come “risorse umane”, in un’ottica che li rende non troppo dissimili da qualsiasi altro elemento della filiera industriale. In questo senso l’opera non è in effetti esente da appunti: se è apprezzabile l’impegno di Cantet a non fare il passo più lungo della gamba, con una regia senza guizzi e quasi documentaristica (predominanza di interni ripresi con camera fissa, assenza di musica extradiegetica), è vero anche che questo lo porta a scontare inevitabili paragoni, dai quali può uscire perdente, con dei precedenti illustri. C’è infatti chi ha notato che il film “non ha né il geniale tocco sarcastico e tragicomico di Ken Loach, né il respiro epico dei lavori dei fratelli Dardenne” (1). Al contrario, può risultare troppo schematica la sceneggiatura, servita (qualcuno potrebbe dire salvata) da interpreti non professionisti - ad eccezione del protagonista Jalil Lespert - che davanti alla macchina da presa si calano in panni analoghi a quelli indossati nella vita reale, con una dinamica simile a quella degli studenti de La classe (qui il padre di Franck è davvero un operaio, il padrone un vero imprenditore, la Arnoux una vera sindacalista, ecc...).

Ma ad uno sguardo più attento si può notare come l’estremizzazione dei caratteri messi in gioco (la rassegnazione del padre, l’intransigenza prossima all’ottusità della Arnoux) sia in realtà funzionale alla rete di relazioni oppositive che si sviluppa intorno a Franck. Volendo rimanere alla traccia narrativa esplicitata sopra, il percorso intrapreso dal protagonista presenta degli elementi che richiamano, in maniera nemmeno troppo velata, il cammino iniziatico degli eroi mitici: le origini umili, il distacco dall’ambiente natale per fare esperienza e crescere, il ritorno che dovrebbe sancire l’avvenuto passaggio all’età adulta e il conseguimento di uno status superiore a quello di partenza, una certa aura di predestinazione… Eppure, all’evolversi della vicenda, Franck si dimostra sempre più palesemente inadeguato al ruolo, in parte perché in lui il tratto dominante è quello di uno zelo, intriso di ingenuità e idealismo, che mal si concilia con le logiche della leadership moderna; in parte perché, come accennato, i personaggi che gli si muovono intorno sono quasi tutti, di volta in volta e a diverso titolo, suoi oppositori: l’impossibilità di ristabilire un rapporto con i vecchi amici compromette la sua re-integrazione nell’ambiente dell’adolescenza, i contrasti prima con i lavoratori (rappresentati dalla Arnoux) e poi con la dirigenza (Chambon ed il padrone) compromettono l’integrazione nel posto del lavoro. Infine, nemmeno il tentativo iniziale di recupero della fabbrica come luogo del passato ha successo, poiché qui il giovane stagista sconta il veto del padre, deciso a far sì che il figlio mantenga le distanze rispetto a lui e ai suoi colleghi.

E attraverso un altro elemento di derivazione mitica, il superamento appunto del padre (quindi la sua sopraffazione e, simbolicamente, la sua morte), si giunge alla seconda lettura del film, quella familiare, che tra le due è decisamente la più originale ed interessante. È d’altra parte lo stesso Cantet ad affermarlo: “Per me rimane la storia di un padre e di un figlio, proiettata su uno sfondo più ampio che dà loro profondità” (2). Se Franck è un personaggio doppiamente diviso - tra l’origine operaia e il destino manageriale, tra il paese natale e gli studi parigini - il padre è invece una figura monolitica: grosso e taciturno, vive il suo rapporto con il lavoro (ma poi anche, una volta appreso del suo licenziamento, quello con il non-lavoro) con una sorta di fatalistica rassegnazione. La figura con cui il protagonista dovrebbe avere il più intenso rapporto affettivo, almeno per lo spazio concessogli dalla sceneggiatura, non riesce a dimostrargli attaccamento se non nella forma dei sacrifici compiuti per la sua carriera. Jean-Claude è un "uomo-lavoro", incarnazione di una visione di comunità in cui tutto è definito dall’attività produttiva, attuale o potenziale, presente o passata: è indicativo, in tal senso, il fatto che Franck, nei momenti di crisi, tenti di riallacciare il legame parentale cercando il genitore, ed aiutandolo, nel garage trasformato in officina, cioè in un luogo privato consacrato anch’esso al lavoro. Il lavoro si propone dunque come canale relazionale unico, totalizzante (si noti come lo script privi il protagonista della possibilità di un legame di coppia), e che, lungi dal favorire un dialogo, è invece causa di quell’incomunicabilità che procede di pari passo con l’alienazione di Franck.

Proprio in riferimento a questo versante della storia si riscontra una maggiore attenzione di Cantet per la messa in scena. L’immagine di Jean-Claude che dalla finestra dell’appartamento spia il ritorno a casa del figlio, accompagnato dal padrone della fabbrica, segnala l’inizio del distacco tra i due, con l’uomo che, guardando per la prima ed ultima volta il ragazzo dall’alto verso il basso, pare pronto ad abdicare al suo ruolo paterno in favore dell’imprenditore, sorta di surrogato genitoriale. Subito dopo, quando Franck rientra in casa, i due rimangono separati da quella stessa porta, ora chiusa, che avevamo visto aperta all’inizio del film, quando la madre lo aiutava a prepararsi per il colloquio in direzione. Di lì a poco, un’altra porta chiusa: quella dell’ufficio di Chambon, impegnato con il padrone in una discussione che esclude Franck e che, scopriremo di lì a poco, sancisce il destino di Jean-Claude. E la crisi tra il protagonista e il padre diviene ancora più esplicita nella scena del ristorante, in cui Cantet gioca con una triplice frattura: cognitiva (Franck sa dell’imminente licenziamento di Jean-Claude, mentre il diretto interessato ne è all’oscuro), timica (il protagonista soffre per il padre, laddove questi esalta la figura del padrone di fronte al figlio) e anche registica. Infatti, la continua dialettica campo-controcampo, pur intorno ad uno spazio così esiguo come quello del tavolo, evita la compresenza dei due nell’inquadratura: la possibilità di una conciliazione viene così negata con una scelta di regia accennata già in precedenza, nella scena che aveva visto, nel salotto di casa, Franck intento a studiare al tavolo mentre i genitori erano seduti sul divano.

E dopo il climax raggiunto in coincidenza dello sfogo del protagonista - con la sua dichiarazione di vergogna gettata in faccia a quel padre che, pur licenziato e con uno sciopero in atto, si ostina a rimanere al lavoro davanti alla sua macchina -, il finale aperto non solo è una scelta strutturalmente corretta, ma anche l’opzione più coerente con il carattere dei personaggi. Senza quel fattore di definizione che era per lui il lavoro, Jean-Claude è simbolicamente morto, una figura relegata sullo sfondo della manifestazione operaia che va in scena di fronte ai cancelli della fabbrica. Franck invece, novello Edipo che ha “ucciso” il padre, si ritrova sconfitto non solo sul piano familiare, ma anche su quello professionale. Ha rinunciato alla carriera e al mondo dei padroni, ma al contempo è consapevole di non appartenere nemmeno a quello dei lavoratori, e a confermarlo - al di là degli screzi con i vecchi amici e con la Arnoux - è anche il fatto che la sua ribellione (parziale) è partita da una base prettamente privata: se il nome del padre non fosse stato nella lista dei licenziandi lui forse non avrebbe trovato lo spunto per attivarsi contro la dirigenza.

Doppiamente dis-integrato, a Franck non rimane che andare via, verso un indefinito altrove in cui probabilmente vedrà perpetuata la sua condizione di “alienato sociale”.

Note:
(1) Daniele Bellucci, Le risorse di un “free-movie, in www.spietati.it/archivio/recensioni/r/risorse_umane.htm
(2) cit. in Nicola Rossello, Un melodramma in  fabbrica, “Cineforum” n. 394, 05/2000


TITOLO ORIGINALE: Ressources humaines; REGIA: Laurent Cantet; SCENEGGIATURA: Laurent Cantet, Gilles Marchand; FOTOGRAFIA: Matthieu Poirot-Delpech; MONTAGGIO: Robin Campillo, Stéphanie Leger; PRODUZIONE: Francia/Gran Bretagna; ANNO: 1999; DURATA: 100 min.

 


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