La leggerezza dell’invisibile sublimata in un bacio che sa di eterno, eppure carico di sensualità contingente. La violenza del vuoto, gravido di non-presenze, sordide come il cielo livido sopra un oriente indefinito. L’amore che si nutre di assenze, di silenzi, di sole vibrazioni. Il paradigma della sottrazione è applicato ad un’opera fuori canone, in cui la dimensione del sogno squarcia il piano della realtà creando un mondo che è altro.
Tae-suk vive da nomade insidiandosi nelle case altrui temporaneamente abbandonate dai legittimi residenti, ricambiando l’involontaria ospitalità con piccoli lavoretti domestici: aggiusta apparecchi, lava la biancheria. Ancora una volta nell’immaginario kimmiano la ritualità della purificazione, i gesti reiterati che annullano la temporalità e collocano il protagonista fuori dall’universo conoscibile, in un limbo di sospensione onirica. Entra nelle vite degli altri a loro insaputa, ruba l’essenza del quotidiano che egli con il suo auto-esilio si è negato. Si nutre del minimo indispensabile di realtà finché non riuscirà a diventare completamente autosufficiente dal mondo. È una figura di carne e sangue, tuttavia impalpabile. Un teatrante che indossa continuamente maschere nuove nella recita a soggetto delle esistenze altrui. Ma ecco che in uno di questi soggiorni clandestini si imbatte in Sun-hwa. Due non-vite possono riempirsi a vicenda? Si muovono fra gli arredi delle case vuote che sembrano così familiari perché protesi dei sé, di chi li ha sfiorati. Lui e lei, mera forma, si lasciano malleare da un sentimento inevitabile, assorbendone ogni sfumatura fino alla fusione-confusione di materia e antimateria.
Kim Ki-duk dipinge un tableau vivant in cui proietta la sua poetica dell’eros e thanatos questa volta purificata fino a divenire intangibile. Sono rintracciabili gli elementi che hanno caratterizzato la sua filmografia fin dall’esordio con Crocodile: carnalità, masochismo tanto emotivo che fisico, limpidezza pittorica dell’inquadratura, intenso lirismo. In Ferro 3 tutto questo ha subito un processo di astrazione che ne ha smorzato ogni brutalità, condensandola in assoluta poesia dell’immagine. Gli echi Zen di Primavera, Estate, Autunno, Inverno…E ancora Primavera si radicalizzano fino al completo dérèglement des sens: quando il sé straniato si ricongiunge all’altro perdendosi nell’infinito spazio-tempo dell’oltre-essere, la sensazione cede alla metafisica; ripudiando ogni mondanità, fugando il caduco vigore del profano, due vite si dissolvono conciliandosi come densi nuclei solari ora sintetizzati in pura energia. La naïveté formale e sintattica che a volte si rimprovera alle opere di Kim Ki-duk è parte integrante del fascino incorporeo del suo cinema di pittura prima che di narrazione, di sguardi prima che di dialoghi.
Ma in Ferro 3 il mutismo non è un ostacolo allo sviluppo della diegesi. C’è una costruzione di suspence estraniante, bizzarra, ma coinvolgente. La stratificata spiritualità, espressa visivamente dai filtri di colore sui toni del verde, lascia spazio al racconto in un’opera che sfugge alle etichette. Un “ti amo” spezza il lungo silenzio degli amanti eterei e apre il sipario ad un bacio furtivo che sigilla la riconciliazione. Ma questa volta sarà per sempre, perché non appartengono più alla finitezza del reale, il dispotico marito di lei non riuscirà più a toccarla. Si equivalgono nello “zero”, come segna la bilancia nel fermo immagine finale. Hanno raggiunto la pienezza dell’essere ben oltre le misure terrene.Una celebrazione dell’amore e del sogno, l’incantesimo del silenzio, il peso dell'assenza, lo spessore del nulla. Cinema. Nient’altro.
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