Vento di primavera PDF 
Monica Pentenero   

Premessa: di fronte ad una storia come quella di Vento di primavera, guardare un film con piena consapevolezza, senza lasciarsi eccessivamente trasportare dagli eventi narrati, è piuttosto difficile.

Distribuito in Italia in occasione del Giorno della Memoria, questo film francese si avvale, tra le altre, dell’intensa, benché marginale, presenza di Jean Reno nel ruolo del medico ebreo deportato con i 13000 rastrellati a Parigi nella notte fra il 16 e il 17 luglio 1942, in quella che è stata la più grande deportazione di massa avvenuta in Francia durante il secondo conflitto mondiale. “Vento di primavera” è il nome in codice con cui i nazisti designarono le deportazioni dell’estate di quell’anno nella Francia occupata, nel cui quadro rientra appunto il rastrellamento del velodromo d’inverno su cui è incentrato il film. Roselyne Bosch, regista e autrice della sceneggiatura, presenta una ricostruzione delle incredibili circostanze in cui è stata progettata la strage, per ripercorrere poi la prima parte del tragitto compiuto dai deportati verso l’inimmaginabile soluzione finale elaborata dal Führer. Oltre a mettere in scena le responsabilità delle autorità francesi, i loro oscuri complotti con il regime nazista e la loro disarmante indifferenza nel mercanteggiare vite umane, il film non trascura di dare direttamente voce ad Hitler e al suo braccio destro Heinrich Himmler, che si muovono in ambienti ora claustrofobici, ora di un’indeterminatezza ai limiti dell’inquietante. Mentre ad apparire chiaramente determinata è la lucida follia che traspare dietro la facciata di pacatezza quasi annoiata che li caratterizza. 

L’inconcepibilità del destino riservato agli “indesiderabili” è uno dei punti chiave di Vento di primavera, messo più volte in risalto per accrescere l’orrore che, come una cappa volutamente opprimente, aleggia sulla narrazione dell’episodio: se tutti, oggi, conoscono lo scopo di quegli arresti e la destinazione di quei viaggi disumani, le vittime, allora, non avevano la minima idea di cosa le aspettasse una volta lasciate le loro case, e affrontavano la situazione con l’ingannevole speranza che non sarebbe potuto accadere loro nulla di davvero terribile. L’incomprensione, l’ingenua fiducia e l’atroce scoperta della realtà sono qui crudamente rappresentate dalla scelta dei personaggi attraverso cui mostrare la retata del velodromo d’inverno e le sue conseguenze: i bambini. Differentemente dal comportamento sino ad allora tenuto dai nazisti, nell’estate del 1942 i figli delle famiglie ebree deportate non vennero risparmiati, ma dovettero seguire i loro genitori, decisione che Rose Bosch non trascura di attribuire agli alti ranghi della Francia collaborazionista. Ecco dunque che la regista amplifica il dramma mediante gli occhi spaventati, increduli e bisognosi di cure delle piccole vittime di quell’orrore ai limiti della vergogna umana che è l’Olocausto. I bambini, così spesso simbolo di speranza e fiducia nel futuro, acquistano qui tutt’altra valenza simbolica, tanto che, quando il film altera il reale corso della Storia, agisce esclusivamente per evidenziarne le conseguenze: l’esperienza della deportazione, in una qualunque delle sue declinazioni, è un trauma così forte da portare al rifiuto della parola (rifiuto che, da solo, simboleggia i 115’ di film), come nel caso di Nonò, sfortunato piccino che lo spettatore ha originariamente conosciuto come caratterizzato da genuina vitalità e grande attenzione verso tutto ciò che lo circonda.

Affrontando una produzione di questo tipo, occorre però chiedersi quale sia l’obiettivo prioritario. In questo caso pare evidente come Bosch non abbia puntato su una forma di originalità stridente, com’è accaduto per La vita è bella e Train de Vie, né sull’eroismo del protagonista, come in Schindler’s List, bensì sulla ricostruzione dei fatti, sulla loro atrocità. La priorità è raccontare, testimoniare, far ricordare, imprimere nella memoria dello spettatore ciò che è stato affidandosi alla forza dirompente delle immagini, delle grida disperate prima, dell’angosciante silenzio poi, al loro impatto emotivo. Non si cerca altro effetto se non quello prodotto dalla cruda verità, senza peraltro dimenticare che, accanto ai collaborazionisti e ai filonazisti, parte della popolazione francese ha fatto del suo meglio per dimostrare la propria solidarietà ai connazionali perseguitati. In quest’ottica vanno inserite le brevi note che aprono e chiudono Vento di primavera: tutti gli eventi narrati, nonostante appaiano spietati e assurdi, sono realmente accaduti, recita il breve prologo, seguito dalle immagini di repertorio che illustrano la visita di Hitler in una Parigi occupata e sinistramente deserta. Mentre l’epilogo si occupa di dare un indice numerico alla brutalità di tali avvenimenti, sottolineando che solo 25 delle oltre 13000 persone deportate nei campi nazisti nel luglio 1942 sono sopravvissute e tornate in Francia. 

È Jean Reno a proclamare la frase più significativa dell’opera, frase che, purtroppo, non ha finora trovato, né troverà mai, un riscontro adeguato: “Verrà un giorno in cui lo dovranno spiegare, i responsabili di tutto questo”. Poiché nessuno potrà mai realmente spiegare, né comprendere ciò che è stato. E allora il ruolo di un film come Vento di primavera è, appunto, perpetrare il ricordo, impedire di dimenticare. Poiché sarebbe insensato e sbagliato slegare questo film dal suo intento, separarlo dalla funzione per cui è stato pensato, sarebbe inutile tacciarlo di spettacolarizzazione della crudeltà, di sentimentalismo, discuterne la bellezza o la bruttezza estetica o formale. Riccardo Bonavita, professore e studioso dell’Università di Bologna, sosteneva che il problema della divulgazione non fosse far vedere (esistono numerosissimi documenti in grado di farlo), ma far sentire la gravità di ciò che è avvenuto durante la Shoah e se, guardando Vento di primavera è pressoché inevitabile lasciarsi influenzare da ciò che si vede, significa che questo scopo è stato raggiunto.

TITOLO ORIGINALE: La rafle; REGIA: Roselyne Bosch; SCENEGGIATURA: Roselyne Bosch; FOTOGRAFIA: David Ungaro; MONTAGGIO: Yann Malcor; MUSICA: Christian Henson; PRODUZIONE: Francia/Germania/Ungheria; ANNO: 2010; DURATA: 115 min.

 


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