Mr. Lawrence Kasdan: il grande freddo della memoria, ovvero The Big Chill e Dreamcatcher PDF 
di Davide Tarò   

"Io vorrei tanto avere qui uno di quei giochi con gli invasori cosmici"
da The Big Chill.


Era il 1983, in pieni anni Ottanta, quando Lawrence Kasdan classe 1949, scrive, co-sceneggia e dirige Il grande freddo, per la Columbia Pictures, prodotto dalla Carson Productions Group. Ltd, brulicante di attori feticcio in fiore, facce giuste, cinematografiche, alcune diventate nel corso del decennio conosciute, anche mainstream, altre perse negli abissi della memoria cinematografica. Un freddo glaciale pervade il tutto, si sente, ben percepibile, quello degli abissi della memoria, dei ricordi, minimalisti, 'raccontati' dai personaggi, però ben presenti, anche senza l'ausilio di flashback. Diciannove anni dopo, Kasdan, chiamiamolo fato, chiamiamola vocazione, chiamiamolo capriccio produttivo, si ritrova a dirigere una materia analoga, "materia" cinematografica della quale sono fatti i ricordi: la memoria visiva, cinematografica, inconscia.

Questa volta prende un profondo e sperimentale best-seller di Stephen King, e lo fa diventare qualcos'altro, qualcosa di semplificato ma nello stesso tempo profondamente "cinematografico". Kasdan in fondo ha ancora a che fare, a quasi vent'anni di distanza, con un "grande freddo", questa volta invece che nel North Carolina, nei boschi nevosi e imbiancati del Canada. Il titolo in questione è Dreamcatcher, prodotto da Kasdan in persona e distribuito dalla Warner Bros. Senza fare commenti fuorvianti quanto inutili sulla "qualità" delle due a loro modo algide ed affascinanti pellicole, è interessante notare innanzitutto le simmetrie narrative delle due opere: un gruppo di vecchi amici sulla trentina si riunisce un'ultima volta, un amico 'catalizzatore' assente, la malinconica certezza che gli uomini di oggi sono stati i ragazzi di ieri, "l'alienità" ed il potere disgregante del mondo esterno. La cosa non sarebbe neanche poi così singolare, ma se approfondiamo il discorso possono saltare subito all'occhio le scelte di messa in scena operate in entrambi i casi dal regista.

In Big Chill la cinecamera per raffigurare essenzialmente l'insieme del gruppo di amici predilige le forme circolari, "chiuse", a modo di protezione, raffiguranti anche una estraneità verso il mondo esterno, e vi inserisce elementi del profilmico come tavoli, cerchi formati da sedie, divani ed altro ancora.

Tutti formano una sorta di comunità, riunitasi un'ultima volta ancora, a causa di un lutto, una forma concettuale ben definita questa, circolare, protettiva insomma, la stessa de "l'acchiappasogni" indiano appeso nel piccolo cottage di montagna dove altri vecchi amici (con altre memorie) si ritrovano per la caccia al cerbiatto, dove la cinecamera insiste più volte a inquadrarli attraverso l'oggetto indiano, quasi questo fosse un modo di vedere l'umanità, un modo per vederne una piccola parte (il gruppetto di amici) ed un modo di rappresentarne l'interezza (l'intero pianeta, la popolazione in quarantena). In fondo non è un caso che nella parte "fantascientifica" di quest'ultimo a suo modo affascinante pout-pourri l'enorme radar che dovrebbe proteggere la Terra intera sia a forma di "acchiappasogni", di rete protettiva, di "circolo", fatto per non far penetrare nulla di esterno, anche in questo caso con la cinecamera che predilige i movimenti circolari.

 

La dinamica della "circolarità della cinecamera" ci porta ad un altro punto, il sistema 'interno/esterno', di una cultura, del sistema 'famiglia', di valori, tanto caro al "cinema di frontiera" americano che dal John Ford di 'Sentieri Selvaggi' sino ad alcune recenti pellicole usa, anche mainstream, si ripresenta come uno strano ed affascinante fiume carsico. L'interno/esterno del gruppo, è una dicotomia alla quale si devono aggiungere almeno altre due coppie: interno casa/esterno, interno memoria/esterno memoria.

L'elemento catalizzante della prima coppia sembra essere il "cerchio", per esempio la forma di un tavolo o un acchiappasogni, l'elemento della seconda e della terza coppia sembra essere invece 'la finestra' della casa. Per le ultime due coppie le cose si complicano un po', perché, pur avendo lo stesso elemento 'catalizzante', la messa in scena è molto diversa: infatti nella memoria di Jonesy da "Dreamcatcher", tutti i ricordi sono visti attraverso una finestra mentale alla quale il personaggio può affacciarsi (ma che è quella identica in fondo alla casa di The Big Chill), una finestra che dà su una immensa distesa di neve vergine che è il ricordo, la memoria, intonsa, mai più toccata, la rappresentazione sublimata dell'esterno. In fondo un uomo solo nella neve è un uomo che fronteggia i suoi ricordi. La fotografia di John Bailey predilige tonalità spente, quasi morte, fredde appunto, cosa che è riuscito a trovare in North Carolina dove in effetti il film dell'83 è stato in gran parte girato, mentre il direttore della fotografia dell'ultimo film, John Seale, ha sfruttato sapientemente l'ambientazione "nevosa" di King, potendo giocare quasi a carte scoperte ed in maniera sfacciata sul freddo e sulla minaccia del mondo esterno/alieno, e sul calore dell'interno del nucleo di amici.

 

Proprio come succedeva già in Big Chill, il mondo esterno è destinato ad erompere, ad entrare nel gruppo: lo ha fatto dall'inizio dei titoli di testa fino alla fine del film, i ricordi stessi che tengono saldo il circolo sono in realtà già parte aliena, perché contaminata per forza di cose dall'esterno, i personaggi sono tutti ossessionati perché facenti parte integrante dell'esterno, anche se si 'sentono', o meglio, si vorrebbero sentire, interni ad un gruppo, "Non diciamo stronzate, là fuori saremo di nuovo tutti soli", dirà il personaggio di William Hurt, ed è quello che in fondo succede anche a Jonesy ed ai suoi amici, costretti a difendere un circolo ancora più privato: la loro mente, con una presenza aliena/esterna che è penetrata nei loro ricordi, diventata parte di essi, con Jonesy stesso che "girovaga" disperatamente nelle sue stanze di memoria per trovare qualcosa che lo possa salvare, far resistere, in una messa in scena quasi sfiorante genialmente il kitsch.

In queste due pellicole Kasdan prende, riprende ed "espande" il sistema della "sua" Memoria cinematografica, collegata ad un gruppo, all'esterno, all'individuo, e lo mette davanti agli spettatori, ponendo loro il 'sistema' per tutta la durata dei due film, solo in piccola parte "esteticamente" diversi.

 


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