New York. Uno spietato assassino armato di coltello da cucina sta eliminando uno ad uno i poliziotti della squadra narcotici. Mentre la stampa, con un vortice di accuse, indica i vertici della polizia stessa come responsabili di tali violenze, il tenente Fred O'Connor e il collega Bob non esitano a investire celatamente i soldi sporchi in un appartamento di Manhattan. Un giorno si presenta alla porta Leo, giovane agiato dalla personalità disturbata, che confessa di essere quello che i media hanno definito il copkiller. Fred, considerandolo null'altro che un pazzo mitomane, lo sequestra nel proprio appartamento per paura che il giovane possa recarsi dalla polizia e denunciare la corruzione dei due. Bob tenta però di liberare il giovane, ma nel corso di una violenta colluttazione rimane gravemente ferito dal compagno Fred che spinge successivamente Leo a tagliargli la gola per declinare ogni responsabilità e inscenare quindi un nuovo delitto del serial killer. I fatti precipitano ulteriormente quando il tenente O'Connor, in bilico tra umanità e disperazione, si reca dalla moglie di Bob.
Pellicola assolutamente atipica nella cinematografia italiana e nella filmografia del regista torinese, prodotta dalla Rai RadioTelevisione Italiana e girata in inglese, Copkiller - L'assassino dei poliziotti presenta infatti uno stile e un piglio tipicamente "americani", quasi in dissonanza con il taglio intellettualistico dell'insieme e certamente stridente con il background culturale di Faenza, molto legato a fonti letterarie, che si sarebbe sviluppato più tardi negli anni, a volte con risultati dignitosi (Jona che visse nella balena, 1993), altre con risultati decisamente pessimi (Sostiene Pereira, 1995). Scandito dalle musiche di routine di Ennio Morricone, peraltro poco ispirate e pregne di imbarazzanti rimandi al tema di Città violenta di Sergio Sollima, il film è forse troppo didattico e didascalico per sviluppare i temi importanti e di forte impatto sociale che l'ambito da b-movie e un'ingiustificata verbosità della sceneggiatura indeboliscono in maniera quasi decisiva: la corruzione della società, il ruolo dei media, il senso di colpa. Gli echi di parabola etica su innocenza e colpa, ordine e disordine, siano essi istituzionali o psicologici (nessuno è davvero colpevole poiché tutti lo sono), ben incarnati dallo squilibrio di Keitel e dallo specchio rappresentato da Lydon ("Tu non sei più lo stesso, stai cadendo a pezzi; hai bisogno di confessare"), ne fanno un film innovativo di forte impatto visivo, almeno per quel cinema di genere italiano che timidamente si affacciava oltreoceano, e decisamente ispirato, mosso da un sociologismo quasi disarmante all'interno di un'opera il cui maggior pregio è in assoluto la costruzione di un clima teso, a tratti nervoso, spesso psicologicamente snervante e disturbante. Merito della gara di bravura tra un Harvey Keitel che di lì a poco si sarebbe eclissato a lungo prima della sua miracolosa rinascita cinematografica, e un John Lydon, alias Johnny Rotten, già leader della formazione punk per eccellenza Sex Pistols, qui al suo debutto come attore, sorprendentemente talentuoso e in parte.
Copkiller, quasi rinnegato dal suo autore, ma un vero e proprio cult movie tra gli appassionati del genere, resta comunque una magniloquente testimonianza sulle idee, politiche e artistiche, dell'epoca e un simbolo di quelle sfide di cui la scena italiana odierna sembra incapace di farsi carico in nome di un cinema di maniera con grossi mezzi a disposizione, ma, per assurdo, più povero.
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