TOFIFE 2006/Note a margine sul 24° Torino Film Festival PDF 
di G. F.   

Approfittando dell'ultima edizione del Torino Film Festival, sorgono un paio di annotazioni a margine relativamente al concetto di creazione del mito americano. Un sottile filo rosso fornito da due pellicole diversissime tra loro per target, direzione, genere, concezione e meccanismi narrativi permette di osservare la friabile base culturale su cui spesso si edifica la mitologia a stelle e strisce, obbligata a ingenerare ciò che le altre culture possiedono per naturale sviluppo storico e sociale. E questo risulta evidente ben al di là di quelle che possono essere le intenzioni autoriali.

Flags of Our Fathers di Clint Eastwood, che della manifestazione è stato l'evento d'apertura - evento condiviso con le sale cittadine in cui il film era stato distribuito nello stesso giorno per la normale programmazione - e Requiem for Billy the Kid di Anne Feinsilber, incluso nella puntuale rassegna Americana, consueta ed attenta panoramica sugli ultimi lavori d'oltreoceano. Da un lato un film che prende le mosse da uno degli ultimi avvenimenti del secondo conflitto mondiale (la celebre fotografia "a piramide" scattata su un drappello di uomini intenti ad issare la bandiera americana ad Iwo Jima) per riflettere sul più vasto problema dell'identità (individuale e, di riflesso, dell'intera nazione); dall'altro un'inchiesta, condotta con incedere mistery su un impianto documentaristico, su uno dei più controversi personaggi della leggenda del West, il famigerato Billy the Kid. E, continuando lungo questa polarizzazione, da una parte un regista affermato, accusato spesso in passato di idee conservatrici quando non addirittura reazionarie; dall'altra una cineasta giovane, al suo esordio dopo una carriera concentrata a produrre lavori altrui, soprattutto in ambito televisivo. Il primo, un lavoro di un americano purosangue, il quale, pur affermandosi in western andalusi, negli anni del massimo fulgore, soprattutto attoriale, ha incarnato proverbialmente i caratteri dell'americano pragmatico e risoluto (chiedere a Scorpio, in proposito); il secondo, invece, un ritratto all american insabbiato tra Arizona e Nuovo Messico realizzato da una regista che lavora tra gli States e Parigi, a cavallo non solo di un oceano, ma anche di criteri, approcci e orientamenti trasversali. Eppure, nonostante queste fondamentali differenze, la diversità di registrazione degli eventi, le modalità di restituzione, la formazione individuale e il milieu di provenienza, una sottile parentela accomuna questi due lavori e rende possibili se non proprio una riflessione, almeno un confronto.

Oltre le semplici apparenze, il febbraio 1945 sul monte Suribachi e il luglio 1881 nella desertica Lincoln, nella storia americana, possono avere ascendenze comuni. Una fotografia scattata ad un drappello che cementa una vittoria con l'innalzamento di una bandiera e la riapertura di un caso giudiziario che si reputava sepolto (in tutti i sensi) da almeno 125 anni dispongono di una matrice comune che nel terreno fertile degli Stati Uniti, regno dell'esasperazione mitopoietica, della leggenda creata per sostituire e sopravanzare la Storia e dotarsi di quelle radici culturali e sociali altrimenti impossibili da reperire, è in grado di attecchire e sviluppare fino a diventare realtà effettiva. Al di là di ogni (ir)ragionevole dubbio. Poco importa che la fotografia dei baldi giovani saliti sul monte fosse in realtà un esempio di fiction bellica non dissimile dai documentari propagandistici d'autore Why We Fight o dalle direttive dell'Office of War Information su come realizzare i film di guerra durante lo svolgimento della stessa: ciò che ne risulta è un veicolo propagandistico che abbandona la cronaca e l'istantanea del preciso momento per ascendere all'empireo della mitografia nazionalistica, da intendere nella sua qualità più artatamente ampia di sfruttamento della situazione come ritorno di immagine e guadagno economico (in questo caso: come risveglio dell'orgoglio nazionale per far finanziare le ultime operazioni belliche attraverso una larga sottoscrizione). E poco importa anche nell'altro caso se due cittadine, Lincoln, Nuovo Messico, e Silver City, Arizona, si contendono l'effettiva identità di uno dei più celebri outlaw herpes della storia del West, che è storia nazionale tout-court: ciò che ne consegue, premesso che dime novels e aurografia hollywoodiana hanno già innalzato ad eroe una sorta di Salvatore Giuliano Stars & Stripes, è lo strenuo (ed anche un po' ciarlatanesco) tentativo di far germinare l'epopea laddove c'è solo un cippo consunto dal tempo e dalle intemperie (anche in questo caso evidente lo scopo latente dietro quello manifesto: oltre la volontà di assumere il protagonismo della Storia c'è il desiderio di sopravvivenza turistica dei piccoli centri). Costruire e modellare il vacuo rendendolo appetibile, imprescindibile. Intorno soltanto tumbleweeds desolantemente furoreggianti nel deserto delle verità accertate. La realtà diventa immagine, ricostruzione, proposta luccicante all'audience. Anche questo, soprattutto questo, è ciò che intendono Eric Hobsbawm e Terence Ranger parlando di "invenzione della tradizione" (E. Hobsbawm, T. Ranger [a cura di], The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1983): un'opera di configurazione, plasmazione, modellatura, cesellatura, attraverso la quale tenere insieme, consolidare una nazione tramite i suoi ideali, le sue figure di riferimento, i suoi mirabili esempi, i suoi eroi e i suoi valori. Inventare l'archetipo per far funzionare la società. Accantonare la verità per la verosimiglianza: conta cosa si trasmette, non cosa realmente è; funziona il prodotto che si instilla nell'immaginario, non la correttezza dell'informazione.

Lo diceva già, con altri termini e in un diverso contesto, John Ford, ma è singolare notare come la frase finale di un film rappresenti lo specchio fedele di un'intera condotta nazionale. La verità? Un simulacro di cartapesta su cui alcune figure più o meno consenzienti si muovono davanti al pubblico raggiante di uno stadio. La Storia non si registra, si allestisce.

 


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