La vita sporca(ta) di Roman Polanski PDF 
Umberto Ledda   

Vale in generale, nel cinema, l’ovvia regola che vale un po’ per tutte le faccende creative: anche l’artista più estremo, più complesso e più geniale ha il sacrosanto diritto di condurre una vita tremendamente noiosa. E infatti, di solito, le biografie dei registi che firmano le opere più inquietanti/conturbanti/devastanti sono terribilmente statiche, e spesso vien da chiedersi da dove vengano fuori tutte quelle ansie profonde, quelle inquietudini, quelle domande di cui si suppone che i film siano un tentativo di risposta. È giusto così, probabilmente: la vita sporca il pensiero; quando si vive, difficilmente si pensa alle storie e agli intrighi di persone inesistenti, essendo alla fin fine il cinema, così come tutte le arti, una cosa profondamente inutile, una cosa che si fa e si vede in assenza d’altro, per supplire a qualcosa. Oltre al fatto che quando si vivono le esperienze nella vita reale diventa parecchio difficile fare il salto e raccontarle in maniera universale, in modo che poi degli estranei possano trovarci dentro le proprie domande, le proprie inquietudini e i propri tentativi di risposta: è una banale questione di punti di vista. Per cui, in generale, il fatto di essere dei conigli con la biografia di un impiegato di banca può aiutare. Con delle eccezioni. La biografia di Roman Polanski sembra un film di Roman Polanski. Anzi, almeno tre film di Polanski.

C’è, prima di tutto, un’infanzia trascorsa a fare a pugni con la storia, quella grossa. D’altra parte, nascere nel 1933 da famiglia ebrea e polacca è già di per sé un bel casino. Polanski passa i primi dodici anni di vita fra spostamenti e fughe; la famiglia finisce nei campi di concentramento, la madre muore, il padre si salva, e riesce anche a salvare Roman nascondendolo presso una famiglia cattolica in cambio di soldi. A leggere le biografie si percepisce un tono vagamente epico, alle soglie del romanzesco, con l’aggiunta di particolari caratterizzanti come il precoce amore per il cinema: fuga dalla realtà e specchio oscuro per questo bambino che per accettare gli orrori e gli errori della Storia si rifugiava in una sala, eccetera eccetera. L’infanzia di Polanski è a metà fra un romanzo di Dickens e, appunto, un film di Polanski: dominata da un destino inspiegabile e cattivo, claustrofobica e tremenda.

I suoi primi lavori da regista, una volta finita la guerra e iniziata una vita normale (si può avere una vita normale quando non la si è mai provata, e quando i primi dodici anni li si è passati scappando da un qualcosa che voleva ucciderti per motivi oscuri?), evitano con cura l’autobiografismo. C’è l’ovvia atmosfera di nouvelle vague, visto che gli anni sono quelli, ma meno oltranzista e intellettuale. C’è, piuttosto, un richiamo abbastanza chiaro al teatro dell’assurdo, e si respira abbastanza nettamente un’aria di insensatezza ontologica, per così dire. La particolarità è che non è un assurdo particolarmente cupo, kafkiano, o deprimente. Semplicemente, gli eventi in questi primi film (cortometraggi e lungometraggi) assumono una piega inspiegabile, come se fosse una cosa naturale. Spesso  (se non sempre) crudele, certo, ma scontata e in molti casi anche trattata in modo decisamente leggero. Come se Polanski avesse ricevuto una specie di imprinting all’assurdità e all’insensatezza delle cose, trasportandola nei suoi film senza nemmeno pensarci troppo. A parte Repulsion, oggettivamente cupo, claustrofobico e kafkiano, gli altri lavori del periodo trovano il loro fascino proprio nella bislacca leggerezza che si posa sopra un impianto evidente di nichilismo, pessimismo e sarcasmo verso i rapporti sociali e personali. La visione del mondo di un uomo che conosce la normalità del vivere civile solo come una maschera, avendo conosciuto senza volerlo l’insensatezza e l’orrore che si muovono al di sotto.

A questo punto le biografie sono pronte per registrare un altro tipo di orrore. Sono passati gli anni, Polanski è diventato un regista fighissimo e amato, ha appena girato Rosemary’s Baby (paranoia, claustrofobia, alienazione, sempre con sporadiche ventate di ironia e leggerezza) ed è probabilmente consapevole di aver tirato fuori un mezzo capolavoro, sta a Los Angeles e se la gode ai limiti del deboscio. Finché a una festa non arriva un branco di sballati satanisti (che sembrano usciti direttamente da un film di Russ Meyer), capitanati da un aspirante cantautore che si chiama Charles Manson. Polanski non c’è, è in Inghilterra. I satanisti uccidono cinque persone, fra cui la moglie di Polanski, incinta all’ottavo mese, indulgendo in pratiche macabre che sembrano tratte da un horror per adolescenti, a parte il fatto che sono vere. Non è ben chiaro perché vadano proprio alla festa di Polanski e perché ce l’abbiano con lui, ma d’altra parte cercare una logica sana nelle azioni di un tipo convinto che le canzoni dei Beatles nascondano l’annuncio dell’apocalisse è del tutto inutile. Ed è proprio l’assoluta incomprensibilità del male legato alla vicenda Manson a far sembrare la vicenda, terribilmente reale, pienamente polanskiana - in senso cinematografico, di finzione - e a darle una profondità e una capacità di inquietare superiore alla media degli orrori quotidiani. A casa Polanski avviene un orrore di un tipo più complesso: un orrore che non si può razionalizzare, perché fin dall’origine privo di un senso solido. Tornando al discorso meno importante, quello del cinema, la tragedia provoca ovviamente un cambiamento nelle opere: scompare la leggerezza. Polanski aveva da sempre fatto storie di alienazione e di assurdità: dal 1969 scompare la divertita ironia, il distacco, con cui guardava i suoi orrori preferiti. Rimangono, e rimarranno, l’alienazione, l’ossessione claustrofobica ai giochi di potere fra personaggi che desiderano solo sbranarsi a vicenda, la follia. Il primo film girato dopo il massacro è un Macbeth cupo, violentissimo e pesante. E anche quando torna a una apparente ironia, in Che?, scompare la garbata leggerezza e il riso è un riso di scherno.

E infine, c’è l’orrore più sottile, quello che si può compiere in prima persona. La vita di Polanski continua a essere romanzesca ma prende una strada più ambigua. Mentre i mass media dell’epoca se lo coccolano per l’aura maledetta che il massacro dei Manson gli aveva gettato addosso, il regista continua la sua vita. I fatti in questo caso sono decisamente meno certi. Avvengono, sicuramente, nella villa di Jack Nicholson (altro particolare facilmente romanzabile: la vita segreta delle star mondiali, che sono tanto ma tanto fortunate ma dentro sono tanto ma tanto brutte, come e peggio degli individui normali). C’è una ragazzina tredicenne e c’è del sesso. Curiosamente, tutti i problemi che sorgeranno in seguito verranno dal dubbio che il sesso sia stato consenziente o meno, badando solo strumentalmente alla questione dell’età: lo stesso Polanski ammetterà candidamente di aver avuto rapporti con lei, dicendo semplicemente che lei era d’accordo. La ragazzina lo denuncia e Polanski si ritrova addosso tutte le accuse del caso, dallo stupro alla pedofilia. Si fa un mese e mezzo di galera e non appena può taglia la corda, abbandonando per sempre gli Stati Uniti e ritirandosi in un comodo esilio europeo per il resto della sua vita. È una di quelle vicende impossibili da sbrogliare del tutto, perché tutto ciò che si può sapere viene dalle parole dei due implicati, passando attraverso interessi evidenti o nascosti. Di certo c’è l’età della ragazza. Di non certo il fatto che lei fosse consenziente, e il dubbio se abbia qualche valore il consenso di una tredicenne su robe sessuali proposte da un quarantenne. Ma questo è un altro discorso. Sta di fatto che Polanski scappa. E si trova a fare i conti con se stesso, si suppone. E conosce la gogna mediatica: il carosello delle accuse e delle ipocrisie (a prescindere dalla verità dei fatti, o dall’effettiva colpevolezza), la tendenza della verità a dissolversi nelle parole di chi accusa, o difende, per raggiungere un fine proprio. Anni più tardi, la ragazzina dichiarerà che effettivamente sì, era consenziente, ma l’idea di inguaiare un uomo molto ricco era allettante.

L’autobiografismo in Polanski è leggero ed estremamente filtrato, ma c’è. Tutto quanto accade nella sua vita ha un periodo di latenza psicologica, di assestamento, ma alla fine lo si ritrova nei film. Accade così per ogni artista, ma la vita intensa di Polanski rende più evidente il travaso, il gioco di risonanze e ritorni. L’ambiguità della colpa e l’idea che la vittima non per forza debba essere innocente, così come quella che il colpevole non per forza debba essere assolutamente malvagio, si fanno lentamente strada nel suo lavoro. I giochi di potere, i sottili equilibri verbali che spostano sul piano della retorica il baricentro della realtà dei fatti, il concetto stesso di colpa. E se la questione Manson aveva creato nel suo percorso artistico un generale incupimento, come una maturazione, ma senza distorcerlo attivamente, le vicende giudiziarie che lo coinvolgono in prima persona generano una vera e propria trasformazione. E se da una parte, nell’astio che si respira verso le ipocrisie e le menzogne del vivere civile, verso i giochi di potere che legano gli uomini, mascherati da sentimenti, si intravede il Polanski che si proclama innocente, convinto che sia tutta una macchinazione contro di lui, nell’attenzione ossessiva al tema della colpa e delle sue sfumature più ambigue si può vedere un Polanski più profondo, quello che si chiede alcune cose su se stesso e cerca di venire a patti con il fatto di non essere il più pulito degli uomini. Questa dinamica fra disprezzo gettato verso l’esterno e dubbio verso di sé crea una dialettica complessa che, di fatto, diventa l’ossatura del suo cinema.

E se in film come Pirati o La nona porta Polanski abbassa il tiro e punta alla moneta, com’è suo diritto, lavori come Luna di fiele o La morte e la fanciulla sono così personali che uno psicanalista potrebbe lavorarci su per anni. Luna di fiele è un film bilioso e profondamente cinico, il cui unico scopo sembra essere quello di smascherare l’illusione dei sentimenti e delle passioni, mostrandoli come un puro, e gretto, gioco di potere in cui il sesso è semplicemente l’arma più efficace e non è mai espressione positiva, ma pura forma di dominio e manipolazione. Ne La morte e la fanciulla l’atmosfera è claustrofobica come da manuale, l’impostazione praticamente teatrale e la storia semplicissima come capita spesso quando le storie son lì a dimostrare qualcosa: una donna crede di riconoscere in un tale l’aguzzino che l’aveva torturata durante la guerra e lo processa per conto suo. Polanski riflette sul concetto stesso di colpa, mettendo in scena, in maniera mediatissima e iperbolica, ma evidente, il suo stesso rapporto con il male. Giustizia e verità si sfaldano dopo venti minuti di pellicola, l’impossibilità di capire anche solo cosa davvero sia successo in quel passato a cui si fa riferimento in continuazione (lo spettatore ascolta solo le parole dei protagonisti, e deve fidarsi di una versione dei fatti) manda all’aria qualsiasi tentativo di posizionare eticamente la vicenda. Il tema della guerra e della violenza gratuita che genera nell’animo umano si ibrida, e viene sopraffatto, con le angosce e i dubbi del Polanski esiliato per stupro: una vittima che non è innocente per il semplice fatto di essere vittima, un aguzzino che probabilmente lo è ma forse no e comunque non rappresenta, con sommo dispiacere della vittima, il male assoluto. Polanski sa che quanto è accaduto a lui è rappresentativo dell’irrisolvibile debolezza della giustizia umana, e nonostante questo, sa che davvero c’è in lui qualcosa di oscuro, e che anche dopo una vita passata da vittima, chiunque può diventare aguzzino, e non c’è un rimedio definitivo per questo. Di questo dolore e di quest’angoscia impossibile da risolvere (ed è giusto così) vive la parte migliore del suo cinema, da vent’anni. E se nel 2003 affronta per la prima volta esplicitamente la guerra e il nazismo, mettendo simbolicamente una pietra sopra sulla sua infanzia; i conti in sospeso con la colpa, con la giustizia degli umani e con la verità stessa non se ne vanno e non lo lasciano stare, com’è evidente dalle ultime opere.

Polanski è un autore particolare, esempio paradossale di uomo in fuga da se stesso e dalla giustizia ma nel frattempo di immenso successo planetario. E nonostante nei suoi film tornino puntualmente le solite ossessioni, e le stesse riflessioni sugli eventi che gli hanno rovinato la vita e su cui ha costruito la carriera, rimane sempre, nella sua immagine pubblica come nei suoi film, un elemento di oscurità irrisolvibile, una zona d’ombra e di ambiguità. Da quel punto di vista, Polanski è un autore profondamente onesto: pur lavorando e facendo film come mezzo per comunicare al mondo la sua posizione, per difendersi o attaccare, o semplicemente per tentare di fare un po’ di chiarezza sulle proprie angosce personali, non ha mai mentito costruendo impalcature intellettuali consolatorie o semplicistiche. Dopo aver vissuto in prima persona l’orrore in cui gli uomini incappano spesso, ricoprendo fra l’altro entrambi i ruoli, la vittima e il colpevole, non l’ha mai fatta semplice, non si è mai piattamente assolto né semplicisticamente condannato. Ha cercato di capire come certe cose potessero accadere, nelle psicologie dei suoi personaggi così come in se stesso. Non ci è riuscito, ovviamente, e anche in questo caso, probabilmente è giusto così.

 


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