Capita sempre con maggior frequenza di finire per svalorizzare una pellicola anche per la sua durata, specie quando questa è considerata troppo lunga. Decisamente meno occasionale è il momento in cui ci si ritrova immersi in un film, nelle sue immagini di un raggelante iperrealismo e di una sublime interpretazione, al punto da desiderare che i suoi 97 minuti si allunghino ancora un po’. L’esordiente regista franco-svizzera Ursula Meier si rivela subito la nuova promessa del cinema europeo con quest’opera rivelazione della settimana della critica al Festival di Cannes 2008. Home è un film coinvolgente e intenso, in cui commedia e dramma si mescolano tra le affascinanti tracce tematiche, messe a segno tra i colori pastello e i toni dostoevskijani, in un crescendo cupo, ritmato e di grande tensione.
La storia di Marthe e Michel, genitori delle adolescenti Judith e Marion e del piccolo Julien, che vivono in una casupola in un luogo abbandonato tra campi sterminati e autostrade perdute, non è, come si rischierebbe d’intuire nelle prime sequenze, la metafora di un'umanità che cerca un suo posto nel mondo e un significato da dare a una vita troppo stereotipata. È un groviglio di trame che s’intrecciano senza velleità filosofiche, ma con una mise en scène tanto delicata quanto violenta, una rappresentazione provocatoria e originale che divide il suo tempo narrativo in due atti: una commedia grottesca e un dramma che scivola quasi nell’orrore, una favola realista in cui la satira disincantata con la sua graffiante ambiguità slitta vertiginosamente nella ballata più fosca e nichilistica. L’allegra famiglia, modesta, incasellata nella sua tranquilla quotidianità, come nell’incipit del lynchano Velluto blu, mostra presto i primi segnali di una crisi che ha bisogno solo di tempo per manifestarsi in tutto il suo orrore. La regista mette in scena le distorsioni della postmodernità e le storture della contemporaneità con l’armonia di una sconvolgente delicatezza, all’esatto opposto di quell’irrisione tipica dei Coen in film come Fargo.
La felicità della bizzarra famigliola in cui adulti e bambini fanno il bagnetto insieme, in cui le serate davanti alla tv si trascorrono in uno scalmanato giardino sull’asfalto, in cui un’adolescente trascorre giornate intere a prendere il sole e fracassarsi i timpani con l’hard rock mentre la sorella si vergogna della sua ombra, in cui la madre sembra la reincarnazione sperimentale di una Patti Smith della prateria e il padre è affetto da mille fobie paranoiche, sembra venire dal contesto, da una casa alla fine del mondo, un mondo proprio all’interno del mondo stesso. Il luogo "altro", come lo definirebbe certa grammatica relazionale, non è il nido dell’amore, piuttosto esso risulta al primo intoppo l’elemento che lo destruttura. Ciò che più mette in bilico la serenità, e l’unione, dei personaggi è proprio la dimensione interna: le dinamiche intrapersonali e interpersonali. Quando la strada suona un prepotente campanello d’allarme l’interno si sfascia, si sgretola sotto il suono assordante dei pneumatici su strada, e trascina nella sua progressiva demolizione le nevrosi che un equilibrio instabile aveva innalzato in quattro rassicuranti mura. Attori e spettatori di un dramma che si svolge sul bordo di un’autostrada come sul bordo di un palcoscenico, questi Simpson invertiti restano attanagliati tutti in un perturbante girotondo del malessere. Di teatrale c’è tutta la sovrastruttura derealizzante tipica di film come Dogville: il suo complicato fil rouge si srotola quasi tutto in un solo spazio. Basta notare in che modo la presenza di personaggi esterni, attraverso le inquadrature tipiche della nouvelle vague, interferisca con quello spazio per comprendere che esso stesso è un personaggio del film. La casa rappresenta la cortina dietro cui la famiglia si è barricata rispetto alla convenzione, rispetto alla normalità mediocre della middle class. Essa è la chiusura ovattata dei nostri protagonisti, e solo la sua apertura all’esterno ribadisce la sua rilevanza. L’apertura del tratto autostradale alle auto, infatti, svela nevrosi quotidiane, alcune forse nate in un passato che si vuole dimenticare, e, come un sipario, mostra le vite e le loro somme nella disperazione della perdita del controllo, nell’esasperazione di uno stravolgimento lento ma impellente come il traffico a Ferragosto. Più l’asfalto si fa incandescente più s’arroventa quell’equilibrio precario. La madre, figura centrale con l’incredibile carisma della cinquantenne Isabelle Huppert, accentra nelle sue turbe psichiche e concentra nella sua famiglia un’inquietudine polanskiana che, inizialmente iscritta nella visione bucolica di un certo Malick (La rabbia giovane, di cui l’attrice ricorda la superba Spacek), finisce per provocare una sgomenta autosoffocazione collettiva. L’uscita dal cemento armato rappresenterà una liberazione sofferta, la catarsi dall’oppressione del rumore (che richiama col suo risvolto ambientalista Noise e il suo convulsivo escapismo anticonformista dall’asfissia deprimente delle macchine), degradato in oppressione del silenzio, siglando la riconciliazione dei miserabili protagonisti con la vita e con lo spazio.
Giustamente candidato a tre premi César (migliore opera prima, migliore fotografia e migliore scenografia), Home è un film che corre il pericolo di non trovare un posto nel cinema attuale, di cadere nelle grinfie dell’etichettatura di raffinato prodotto intellettuale che rasenta la leziosità poetica e la pretenziosità stilistica dell’autorialità in gestazione (con le sue citazioni godardiane e hitchcockiane), ma la sua collocazione va letta esattamente come quella finale dei suoi personaggi: ben oltre le recinzioni.
TITOLO ORIGINALE: Home; REGIA: Ursula Meier; SCENEGGIATURA: Ursula Meier, Antoine Jaccoud, Raphaëlle Valbrune, Gilles Taurand, Olivier Lorelle, Alice Winocour; FOTOGRAFIA: Agnés Godard; MONTAGGIO: Susanna Rossberg, François Gédigier, Nelly Quettier; PRODUZIONE: Belgio/Francia/Svizzera; ANNO: 2008; DURATA: 97 min.
|