Pater familias: violenza al maschile, speranza al femminile PDF 
Piervittorio Vitori   

ImagePeccato, per Banda armata e Pericle il nero. Peccato che Francesco Patierno non sia riuscito a condurre in porto i due progetti accarezzati nell’ultimo lustro (il primo sulla vicenda di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti; il secondo, tratto da Giuseppe Ferrandino, su un ragazzo di strada che diventa killer della camorra) e che abbia battuto un colpo al cinema, il suo secondo, solo con il recente Il mattino ha l’oro in bocca, sorta di biografia non particolarmente incisiva del dj Marco Baldini. Peccato perché il suo esordio, quel Pater familias ispirato all’omonimo romanzo di Massimo Cacciapuoti (anche sceneggiatore) e battezzato nella sezione Panorama della Berlinale 2003, era più di una promessa. Storia del ritorno del 30enne Matteo - che, col padre in punto di morte, sfrutta un permesso dopo dieci anni di carcere - alla periferia della sua adolescenza, il film si era inserito con il favore della critica (e peccato per la scarsa visibilità in sala) nel contesto di quel giovane cinema italiano capace di guardare ad una realtà diversamente scomoda senza limitarsi a commediole o quadri borghesi. Quel cinema, per chiarire, che dopo le belle prove dei vari Crialese, Marra e Munzi ha trovato una prima vera consacrazione grazie ai due premi conquistati sulla Croisette da Garrone e Sorrentino. E visto che a questo punto diverrebbe esercizio banale e sbagliato fare di tutta l’erba un fascio, giova operare un primo distinguo e dire di come l’esordio dell’allora 39enne napoletano si sia distinto per una cifra personale e lontana dall’interesse esclusivamente socio-antropologico che pare promanare, ad esempio, dal pur ottimo Gomorra (per citare un film che guarda ad un contesto certo non distante da quello messo in scena da Patierno). Già dai primi minuti, la messa in scena di Pater familias è prodiga di indizi che concorrono a definire il punto di vista del film. Sbarre, reticoli, elementi architettonici che ingabbiano, nascondono, isolano i soggetti. Ancora: sfocature, fumo, riflessi di luce, figure tagliate dall’inquadratura… Il regista pare dirci che non solo l’agire (o il reagire) è difficile, nel degrado sociale che segna questo ambiente, lo è anche semplicemente il vedere: e lo è in primo luogo per Matteo, inizialmente posto come fulcro - emozionale, se non narrativo - del groviglio di vicende su cui il successivo dispiegarsi di flashback andrà a far luce.

ImageQuesta sua centralità si evince proprio mettendo a confronto le scene del presente con quelle di un passato volutamente strutturato senza una precisa linearità e privo di particolari riferimenti temporali. Laddove il peregrinaggio del protagonista nell’oggi è proposto con toni freddi e movimenti di macchina lineari e compassati, il suo ieri ha una connotazione visiva più calda ed instabile, in virtù di una correzione cromatica effettuata con l’ausilio del digitale e dell’apposizione di una borsa riempita di sabbia sulla testa del cavalletto, a produrre il ricorrente tremolio della macchina da presa. Il contrasto ci lascia dedurre come la vista sul passato sia il prodotto di un’istanza particolare, interna alla diegesi: tutto è difatti filtrato attraverso il diaframma della memoria dello stesso Matteo, come viene sottolineato con ancora maggiore efficacia dal fatto che i primi flashback siano costruiti appunto come delle false soggettive del protagonista, seguendo ideali raccordi di sguardo che ci portano dal presente al passato. E il ricordo si trasfigura addirittura in immaginazione (o meglio, falso ricordo) nel caso della prima immagine che ci viene offerta di Anna, quella del collasso in bagno a seguito dello stupro subito dal fratello. L’inquadratura segue la logica suddetta, come se ad osservare la scena fosse Matteo disteso nella vasca, mentre poi scopriremo che si tratta di una scena di cui lui non può essere stato direttamente testimone. A ribadire la centralità della memoria personale concorrono poi anche le scelte musicali, con un commento extradiegetico che salta da un piano temporale all’altro, talora ritmando in maniera incalzante il procedere della narrazione, talora lasciando spazio a melodie evocative, come nel caso dei brani di Lamb e Mum. Si può dunque dare ragione a Simone Emiliani, quando parla di “uno stile prorompente […] che rimanipola la propria realtà, che si impossessa di suoni e rumori, che utilizza in maniera insistente la colonna sonora quasi a creare un lirismo pasoliniano. Pater familias è lontano da quel didascalismo proprio di certo cinema italiano a metà tra il respiro sociale e l’intento civile come i recenti Non sono io di Gabriele Iacovone o Capo Nord di Carlo Luglio e richiama piuttosto quel fisico barocchismo del Capuano di Pianese Nunzio 14 anni a maggio e Luna rossa” (1).

ImagePure, citare quest’ultimo titolo (e le affinità che vanta con il film di Patierno, quali ad esempio l’idea di crimine come destino ineluttabile) genera il rischio di fermarsi qui e confondere il gioco di maschere che caratterizza la pellicola di Capuano con un’operazione che comunque presenta elementi di marcato stampo verista. E non si parla solo, banalmente, di girare per strada e con attori non professionisti: si parla di un metodo di lavoro che può portare a nascondere la mdp agli stessi attori così come anche ai passanti coinvolti inconsapevolmente nelle riprese. È il caso della scena della fallita rapina al supermercato, dove gli sguardi indifferenti degli astanti sono quelli di chi credeva di essere davvero testimone di un delitto. La difficoltà del vedere si confonde quindi con la volontà di non vedere, e questo porta direttamente al nocciolo tematico del film: il concetto di famiglia come luogo di disgregazione e sopraffazione. Con drammatica ironia, la figura del titolo non indica più la guida del nucleo famigliare, bensì l’agente di una violenza socialmente accettata e perciò destinata a perpetuarsi. Una figura quindi assente nella sua accezione positiva - dopo la morte di Roberto, il padre di Matteo definisce gli amici del figlio “quei quattro schifosi senza padre”; eppure, paradossalmente, è forse più assente di loro - e, in quanto titolare di un ruolo negativo, in più casi disconosciuta dai figli (fanno testo in questo senso Michele e Gegè, che cercano di ribellarsi a dei genitori che non definiscono mai come tali). Tuttavia, una frattura ancora maggiore è quella esistente tra il maschile e il femminile. Gli uomini (i ragazzi) agiscono in strada, le donne guardano dalla finestra. E all’interno delle mura domestiche, là dove le due istanze forzatamente convivono, si dà un rapporto che appare basato solo sui due termini, sostanzialmente sostituibili tra loro, di sesso e violenza, con una dinamica unidirezionale che vede sempre l’uomo come il soggetto attivo, e la donna come quello passivo. L’uomo è dunque titolare dell’agire; la donna, al massimo, di quel vedere (di cui si diceva prima) che si scontra con il non voler vedere. Un esempio chiarissimo di questa crisi è dato dal personaggio della madre di Rosa, che cerca di nascondere alla sua stessa vista la brutale violenza del marito (un tentativo simbolicamente evidenziato da quegli occhiali scuri che invece, concretamente, della violenza probabilmente vogliono celare i segni). Questa struttura dà inoltre conto del paradosso del personaggio di Michele: additato dai padri come il “cattivo” (in effetti gira armato ed è un rapinatore), è in realtà uno dei pochi personaggi che possiamo quasi percepire come positivi, proprio perché è il depositario di un codice d’onore molto più rispettoso delle donne di quello dei suoi amici. En passant, ricorre lungo tutto il film, ed è ricondotta al femminile, l’iconografia mariana: lo dimostrano la statua sul comodino di Anna, la processione finale che costituirà l’occasione di fuga per Rosa e sua figlia, la distruzione della statuetta ad opera di Gerardo nell’ultimo flashback (interpretabile come un altro simbolo della sopraffazione di cui sopra). L’unico momento in cui la troviamo collegata all’elemento maschile è quando ci è dato di vedere un’immagine della Madonna sopra la salma, fuori campo, di Michele, nella scena in cui Cosimo è chiamato a riconoscere il cadavere del fratello.

ImageProseguendo il discorso, la notazione più importante è quella relativa al protagonista: sebbene sia forse soggetto realizzato rispetto al sesso - possiamo supporre che faccia l’amore con Anna, ma in effetti non lo vediamo -, Matteo, tra gli adolescenti al centro della vicenda, è l’unico a non esserlo, almeno fino al gesto che ne segnerà la sorte, rispetto alla violenza (violenza che a quel punto lo spettatore percepisce comunque come in qualche modo giustificata). Si aggiunga a questo il fatto che anche lui è un personaggio caratterizzato da una crisi tra vedere ed agire, in particolare rispetto a Rosa e a Michele: nel caso del rapporto con la ragazza, metaforizzato dalla figura delle sbarre che dividono i loro balconi, lui la vede ma non  riesce a notare il suo amore; nel caso dell’amico, è testimone del sequestro ma non riesce ad impedire che venga ucciso (e queste sono in effetti le sue colpe, prima e forse più del successivo omicidio di Alessandro). Infine c’è da considerare come, a differenza degli altri, suo padre sia blandamente protettivo - per punirlo si limita a costringerlo a rimanere in casa - e non depositario di una violenza potenzialmente ereditabile. La conclusione è che il quadro simbolico che ne discende pare porre l’accento su un suo statuto femminile. E se lo stesso regista definisce quelle femminili come “le figure più forti e lucide del racconto” (2), ecco che un barlume di speranza per questa umanità perduta (belle, in questo senso, le immagini metaforiche di cani e gatti randagi) emerge coerentemente dal finale. Un finale in cui Matteo, significativamente aiutato da una suora - “la Chiesa, in certi luoghi, è proprio un avamposto di frontiera” (3) -, trova il suo riscatto nella salvezza procurata a Rosa e alla figlia, in grado di fuggire dalla gabbia della violenza famigliare.

Note
(1) Simone Emiliani, Pater familias, in “Cineforum”, n. 425 (maggio 2003), p. 76
(2) dal pressbook del film: www.kinoweb.it/in_archivio/pater_familias/presskit/pressbook.pdf)
(3) Francesco Patierno in Pater familias, intervista a cura di Serena Smeragliuolo, in “Fucine Mute”, n. 78 (luglio 2005)

TITOLO ORIGINALE: Pater familias; REGIA: Francesco Patierno; SCENEGGIATURA: Massimo Cacciapuoti, Francesco Patierno; FOTOGRAFIA: Mauro Marchetti; MONTAGGIO: Luca Gazzolo; MUSICA: Angelo Talocci; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2002; DURATA: 90 min.

 


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