Qualche hanno fa Espiazione, il coinvolgente romanzo di Ian MacEwan, fu eletto caso letterario dell’anno. Innumerevoli salotti letterari si sprecarono in mille, peraltro meritati, complimenti nei confronti dell’autore, e spontanei nacquero i paragoni col Dostoevskij di Delitto e castigo e la letteratura russa dell’otto/novecento. Improvvisamente il tema del libero arbitrio ridivenne attuale, e per giorni si discusse sulla possibilità che le scelte di qualcuno (giuste o sbagliate che siano) inevitabilmente influenzino le vite di chi gli gravita attorno. Un libro, dunque, che diventa fatto di costume. Un libro la cui trama, sebbene tratti di un tema “antico”, si scopre dolorosamente attuale, articolandosi in modo talmente moderno (con repentini cambi di punto di vista, flashback, piani narrativi che si intrecciano, illusione del romanzo nel romanzo) da risultare naturalmente cinematografico, e da sfociare quindi naturalmente in una riduzione per il grande schermo: l’Espiazione di Joe Wright. Forte del successo dell’ennesima ed ultima versione cinematografica di Orgoglio e pregiudizio, Wright si butta con entusiasmo e incoscienza in un’operazione che a prima vista potrebbe sembrare analoga alla precedente, ma che è in realtà infinitamente più ambiziosa e difficile da portare a termine con successo. Se infatti per Orgoglio e pregiudizio Wright aveva dalla sua numerosi precedenti cui far riferimento (la versione del 1940 di Robert Z. Leonard con Laurence Olivier, la serie televisiva del 1980 con Elizabeth Garvie e David Rintoul, la miniserie con Colin Firth del 1995, solo per citarne alcuni), per Espiazione si è trovato invece a dover affrontare un terreno vergine, su cui incidere di fatto il primo solco. Cosa ardua, perché basta sbagliare il primo filare perché il campo non frutti a dovere. Malgrado la preziosa collaborazione dello stesso MacEwan in sede di sceneggiatura, il risultato, a conti fatti, non è entusiasmante. Ci troviamo, infatti, di fronte ad un bell’esemplare di ibrido cinematografico: un po’ thriller, un po’ struggente film d’amore, un po’ film di guerra, un po’ film d’introspezione. Un ibrido avvincente nell’incipit, che inizia con il delineare in modo sorprendentemente coinvolgente sia i personaggi che la vicenda, ma che con il passare dei minuti precipita rovinosamente passando dalla fin troppo didascalica narrativa di guerra (sembra quasi che l’intera macrosequenza centrale si giustifichi nelle grandiose, e peraltro splendide, scenografie), alla struggente storia di un amore impossibile, alla ricerca della redenzione attraverso la privazione e la dedizione al prossimo, per poi infine riprendersi, con un guizzo narrativo, in un commovente finale. E lo stesso destino è riservato alle performance degli attori. Sorprendente la Keira Knightley della prima parte della pellicola, bella e intensa come le dive del passato, moderna e sensuale come sapeva essere la Dietrich, che ci regala momenti di vero stordimento dei sensi in una sigaretta che si avvicina alla labbra rossissime, nel guizzo di una gamba attraverso il raso verde o semplicemente nel polso avvolto dall’uniforme da infermiera che si flette nel versare una tazza di tè e improvvisamente si scopre. Noiosa e sciapa nella seconda parte, nelle moine dell’innamorata che attende il ritorno e si dedica agli altri diventando improvvisamente e inspiegabilmente melensa, penosamente poco convincente nel rancore che prova nei confronti della sorella traditrice. Stesso discorso per James McAvoy, commovente nel suo sguardo doloroso e limpido, da attore navigato nel sorriso un po’ strafottente nascosto dal moto delle labbra che si mordono per sopire la passione, quanto insopportabile nell’espressione monolitica dell’uomo ingiustamente perseguitato che ingiustamente combatte una guerra ingiusta. Perfetta, invece, la scelta delle attrici che interpretano Briony da bambina (una candida Saoirse Ronan) e da anziana (la luminosa Vanessa Redgrave); meno la Briony infermiera (Romola Garai), che trema, trattiene le lacrime e cerca di redimersi ed espiare, ma non convince. Stilisticamente sembra che alla pellicola manchi un particolare che possa fungere da leitmotiv, che ci accompagni attraverso l’intera vicenda. E se per l’autore il filo conduttore sembra volesse essere un finto scambio di lettere tra Robbie e Cecilia da un lato e tra Briony e Cecilia dall’altro, facendo di quest’ultima il fulcro dell’azione, in realtà questo espediente non basta a tenere desta l’attenzione dello spettatore, perché già dalle prime battute che seguono l’incresciosa vicenda si capisce perfettamente dove si andrà a parare. Ci si aspetterebbe, allora, che la storia acquisti spessore nei “modi” narrativi, nell’intreccio dei piani o in quel guizzo registico che sembra far capolino nelle prime battute, ma che tragicamente si smaterializza col dipanarsi della pellicola, lasciando lo spettatore esanime ad assistere al resto del film, con un atteggiamento a metà tra lo smarrimento e la noia. Finchè, in ultimo, a salvare il tutto, si presenta lo sguardo beffardo della splendida Vanessa Redgrave, che ancora più tragicamente ci svela che il trucco era presente nelle intenzioni del regista ma, ahimè, nessuno se n’era accorto. SCHEDA FILM TITOLO ORIGINALE: Atonement; REGIA: Joe Wright; SCENEGGIATURA: Christopher Hampton; MONTAGGIO: Paul Tothill; FOTOGRAFIA: Seamus McGarvey; MUSICA: Dario Marianelli; PRODUZIONE: Gran Bretagna/Francia; ANNO: 2007; DURATA: 130 min.
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