That's entertainment: la costruzione dello spettacolo PDF 
Stefania Tonelli   

Nel cinema americano classico accade spesso che venga rappresentato l’allestimento di uno spettacolo in tutte le sue diverse componenti. Il film si presenta così come il riflesso delle attività dell’apparato produttivo hollywoodiano, mostrando ciò che normalmente si svolge fuori scena, il lavoro compiuto “dietro le quinte”, i differenti aspetti della vita che ruotano attorno al set. La costruzione di uno show è in particolare il pretesto narrativo di molti film musicali, in cui vengono mostrate ad una ad una le diverse fasi dell’allestimento, dalla scelta del soggetto al cast, dalle musiche ai costumi di scena, fino al lavoro complessivo della messa in scena. Questo procedimento premette di estendere il carattere spettacolare dell’impianto hollywoodiano a tutte le fasi del racconto, col risultato di tramutare ogni situazione, anche la più banale, in momento eccezionale. Nei due film che prenderemo in considerazione, The Band Wagon (1953) e Les Girls (1957), il racconto ruota appunto attorno alla realizzazione di uno spettacolo che, invece di restare circoscritto al solo palcoscenico, invade la realtà circostante, trasformandola in materiale spettacolare e cancellando, di fatto, i confini tra i due mondi (“a world is a stage, a stage is a world”, ribadisce più volte il motivo musicale principale di The Band Wagon, That’s entertainment). Vedremo dunque come questo espandersi dello spettacolo al di fuori dei propri confini permetta a Vincente Minnelli e a George Cukor di esaltare il carattere artificiale (e quindi costruito) di ogni momento del racconto cinematografico, attraverso un lavoro di messa in scena per molti versi innovativo, che tende ad operare una vera e propria riflessione sulla natura ambigua dell’immagine e di ciò che rappresenta. A tal fine osserveremo come l’impianto formale alla base dei due film sia fondato, a discapito della trasparenza e verosimiglianza del racconto, da una parte sull’assurdo, dato che in Minnelli prevalgono episodi deliranti ed eccessivi, legati al fantastico e all’onirico e dall’altra sull’ambiguità, come in Cukor, dove la realtà appare confusa, come riflessa da uno specchio troppo opaco.

I musical di Minnelli
The Band Wagon di Minnelli è, sotto molti punti di vista, il musical più riuscito della storia hollywoodiana, certamente il migliore della MGM capace, sulla scia del successo di Singing in the rain (1952), di riportare in vita un genere che negli anni ’50 sembrava ormai invecchiato e “fuori tempo”. La storia è quella di Tony Hunter, interpretato da Fred Astaire, una “vecchia” star del musical che cerca di riguadagnare la popolarità perduta partecipando ad un nuovo show teatrale organizzato da una coppia di sceneggiatori suoi amici. Lo spettacolo, una versione musicale del Faust, dapprima si rivela un fiasco, ma Tony e la compagnia lo trasformeranno poi in una commedia, portandolo al successo. Il film è talmente ricco di passaggi musicali che i momenti relativi allo show e alla sua preparazione, dunque dal carattere prettamente spettacolare, non appaiono come separati dalle altre sequenze: la dimensione ludica e irreale del racconto non conosce pause o soluzioni di continuità, ogni elemento della messa in scena rileva la sua natura artificiale, fittizia e i personaggi non fanno altro che passare da un ruolo ad un altro (recitando e ballando non solo sul set ma anche nella “vita”), in pratica ogni azione sembra svolgersi su un palcoscenico. Perché di fatto vi si trovano in maniera costante. I numeri musicali invadono il racconto ben prima delle prove dello show, e trasformano una strada affollata, la rimessa di un teatro, un camerino, una stazione ferroviaria, un parco pubblico in una esibizione, in Teatro. Risulta praticamente impossibile poter distinguere i décors del set teatrale da quelli della New York sfavillante e irreale che si disegna (a tratti sembra un cartone animato) sullo sfondo: il trompe-l’œil più evidente lo si riscontra nella scena centrale del film, in cui con la massima naturalezza, Fred Astaire e Cid Charise si mettono a danzare sulle note di Dancer in the dark, in un Central Park di cartapesta con i grattacieli disegnati sullo sfondo. Minnelli in questo episodio accentua in modo parossistico i tratti antinaturalistici della messa in scena, spingendo sempre più il film verso l’immaginario e il sogno, consapevole che la vera menzogna si trovi piuttosto nella ricerca della verosimiglianza; ma se la “vita” si trasforma in spettacolo perfetto e senza sbavature, è lo show invece a perdere colpi e rivelarsi caotico, pieno di problemi, come nella vita quotidiana: durante le prove prima le tensioni tra gli attori protagonisti e tra lo sceneggiatore e il coreografo, poi una serie di errori dei macchinisti confrontati a una messa in scena troppo elaborata (che prevede anche grossolani lampi di fumo che spaventano e intossicano i ballerini) sfociano nella distruzione della scena, cosa che preannuncia la disfatta dello show. La rappresentazione della prima non viene nemmeno mostrata: Minnelli si concentra sulla fase di preparazione, sulle avvisaglie del possibile disastro, ma nega la visione integrale del fallimento, lasciando fuori campo l’insuccesso, come per ricordare che nel suo cinema lo spettacolo è il realizzarsi della perfezione, oppure non è. Proprio grazie a questa estensione totale della dimensione spettacolare, e dunque artificiale, a tutto l’arco del film, Minnelli riesce a eliminare il pericolo del verosimile, ovvero della medietà, del già detto. Il possibile viene esasperato, rovesciato nell’impossibile di un susseguirsi di momenti forti che, come una scarica elettrica, mantengono sempre accese le luci della ribalta: «Il linguaggio dell’opera si rifiuta […] di dare l’illusione di essere traducibile in termini di realtà: rinuncia al verosimile, e ciò con tutta la forza del termine, poiché ciò a cui rinuncia è di sembrare vero. Le opere di questo tipo procurano ai loro spettatori, se questi conoscono le regole del gioco, alcuni dei piaceri “estetici” tra i più intensi che ci siano: piaceri di complicità, piaceri di competenza, piaceri micro-tecnici, piaceri di paragoni in campi chiusi» (1), come all’interno di un genere ben definito e strutturato come il musical. Minnelli evita dunque la trappola del “fare vero” grazie alla sua adesione totale, quand’anche eccessiva, al genere a cui ha apportato più innovazioni sul piano del linguaggio, il musical. Come dice Metz infatti, per fuggire dal verosimile, da lui definito come il momento peggiore in arte, occorre assumere in pieno un codice, un linguaggio (in questo caso la commedia musicale, ma è stato anche il caso per Minnelli del melodramma) e spingerlo fino in fondo, senza cercare compromessi. In The Band Wagon, come anche e ancor più in The Pirate, Minnelli è riuscito a mutare questo genere, rendendo l’intero film un solo, grande numero musicale, un’unica immagine-attrazione, al punto da risultare, nel caso di The Pirate, eccessiva per la capacità di concentrazione dello spettatore medio americano, che infatti bocciò il film come “esagerato”, troppo inverosimile, al punto da risultare un insuccesso al botteghino. In Minnelli quindi il musical assume una dimensione propria, personale e i suoi film si differenziano dagli altri dello stesso genere, per esempio dai musical degli anni ’30 in cui il racconto, un mero pretesto, veniva intercalato con numeri e attrazioni musicali, parentesi che arrestavano per qualche minuto il procedere della narrazione.

Les Girls
Un’altra modalità di messa in scena capace di insidiare il principio di trasparenza e di univocità da sempre attribuiti al modello hollywoodiano la troviamo in Les Girls, una commedia musicale del 1957 di George Cukor. Il film è il racconto, attraverso tre punti di vista differenti di quel che avvenne nella primavera del ’49 a Parigi tra Barry Nichols, interpretato da Gene Kelly, e le tre ballerine del suo spettacolo, le Girls. Una di esse (Sybil/Kay Kendall) ha pubblicato un libro di memorie in cui afferma che una delle sue colleghe (Angèle/Taina Elg) era così innamorata di Barry che tentò il suicidio dopo essere stata lasciata da lui. Questo ovviamente mette in crisi il matrimonio della giovane donna che denuncia la ex-collega, portandola in tribunale e smentendo davanti alla corte la versione di questa rovesciando le parti: afferma infatti che fu la sua amica a innamorarsi di Barry, venire da questi lasciata e tentare poi il suicidio. Toccherà a Barry sciogliere e apparentemente chiarire le due dichiarazioni discordanti, proponendo una terza visione dei fatti che sembra mettere tutto al suo posto (nessuna delle due era innamorata di lui, ci fu solo un incidente che capitò ad entrambe e che fu mal interpretato). Ma un attimo prima della fine, la terza girl, divenuta la moglie del ballerino, rimetterà in dubbio le verità accertate (e accettate) dal racconto.  Innanzitutto è interessante notare come venga messo in crisi uno dei principi chiave della messa in scena classica, ovvero il diritto dello spettatore a “veder tutto”: egli «vedrà in modo confortevole e senza ambiguità, e soprattutto, lo vedrà in modo da non desiderare nient’altro» (2). In Les Girls assistiamo invece a un racconto che man mano che avanza con lo scopo di rivelare la verità (3), tende a ostacolare il cammino dello spettatore depistandolo con punti di vista che si contraddicono e un susseguirsi di particolari e di dettagli incongruenti fra di loro. A dominare il film è dunque la crescente ambiguità di una storia che costantemente reprime e rilancia il desiderio di conoscere qualcos’altro, qualcosa che ci sfugge e che passa accanto alla rappresentazione, senza mai essere messo pienamente a fuoco. Un altro principio importante che viene messo in discussione è quello legato alla necessità di informazioni corrette ed esaustive su quanto si sta vedendo, in modo tale da non lasciare spazio a congetture e ipotesi che distraggano l’attenzione e pregiudichino la soddisfazione completa dello spettatore; anche su questo punto Les Girls si presta per mantenere in ombra molteplici aspetti della verità, lasciando allo spettatore la “sgradevole” (ma allo stesso tempo piacevole) sensazione di essere tenuto all’oscuro di qualcosa, di non poter avere una comprensione completa di quanto è veramente successo. Tutte e tre le versioni infatti non sono esaurienti e nascondono molto più di quello che rivelano, al punto che le parole conclusive di Joy, la terza girl, esclusa dal processo, non fanno altro che inquietare e forse deludere coloro che speravano di aver ottenuto a buon mercato una comoda verità nelle parole di Barry. In realtà Cukor vuole conquistare lo spettatore lavorando su altri aspetti che non siano quelli della verosimiglianza e della coerenza narrativa, ad iniziare dal jeu degli attori, essendo il mondo dello spettacolo il luogo in cui regna l’irreale, la menzogna, la recitazione vista appunto come gioco. Nel film la menzogna è il minimo comune denominatore che unisce i personaggi fra di loro: il processo non è che il (parziale) momento in cui i veli cadono e una (limitata) realtà si manifesta. Ma ancor più si esalta la messa in scena come luogo dell’incertezza percettiva e dunque come regno della più totale ambiguità. Due scene in particolare lo mostrano: durante il flashback che accompagna il primo racconto, quello di Sybil, Joy dice a Sybil di aver visto in platea il fidanzato di Angèle, Pierre (a cui lei ha mentito e che non deve sapere quale sia il suo vero lavoro); Angèle, disperata, guarda verso la platea, ma i riflettori la abbagliano e le impediscono di percepire realmente se Pierre sia o non sia presente in sala (in effetti non si trattava di lui). L’errore di percezione è però determinante poiché Angèle cerca di fuggire dal palco e rovina completamente il numero musicale (4), cosa che causerà il suo licenziamento e il suo tentato suicidio, secondo Sybil. Un’altra scena invece mostra l’inganno che si cela in ogni nostra percezione, in quanto parziale, presentandoci il “doppio volto” della realtà: Joy e Sybil affacciandosi dalla finestra vedono Angèle e Barry uscire dal cortile dell’abitazione, ognuno per conto suo, lui in auto e lei a piedi, salutandosi appena; le due ragazze però, piuttosto astute, corrono all’altra finestra, quella rivolta sulla strada, così da poter vedere Angèle salire di corsa sull’auto di Barry. Qui la messa in scena si “divide” e mostra ambedue i lati, da una parte la menzogna e subito dopo il suo smascheramento, riproducendo in piccolo la struttura del film; questa struttura però non riesce a chiudersi, ma rimane costantemente aperta, proprio perché ogni verità rivelata non fa che nascondere altre menzogne, che verranno a loro volta parzialmente smascherate e così via. L’ambivalenza della visione è dunque il tema centrale che attraversa una messa in scena capace di sdoppiarsi e di trasformare, come in The Band Wagon, la vita in spettacolo, facendo confondere l’una nell’altra al punto che non è più possibile separarle. In Minnelli e in Cukor la costruzione dello spettacolo non si concentra solo sulla fase di preparazione di uno show ma, al contrario, si estende a tutte le fasi del racconto (dentro e fuori scena) contaminando, come una malattia, ogni momento della vita di coloro che vi partecipano (in Les Girls i problemi personali di Angèle e Sybil si ripercuotono nello spettacolo con conseguenze catastrofiche che andranno a loro volta a peggiorare la loro vita sentimentale). Questi due esempi hanno mostrato come a Hollywood il momento della mise en abîme (5) dello spettacolo sia il potenziamento di quest’ultimo a differenza di ciò che accade nel cinema moderno in cui viene esibita la sua messa in crisi: il cinema classico quando svela i suoi meccanismi lo fa per esaltare la sua natura artificiale e per trasformare ogni momento, anche quello della routine quotidiana, in spettacolo.

Note:
(1) C. METZ, Essai sur la signification au cinéma, Klincksiek, Paris, 2003 (I ed. 1968), p. 240. Trad. propria.
(2) J. AUMONT, Le cinéma et la mise en scène, Armand Colin, Paris, 2006, p. 33. Trad. propria.
(3) Un uomo, alla fine di ogni seduta della Corte, passa davanti al tribunale con un cartello su cui è scritto What is truth?, domanda che sembra sempre mettere in dubbio quanto detto all’interno dell’aula.
(4) Anche qui, come in The Band Wagon, sono più i numeri musicali riusciti fuori scena, durante le prove, che quelli presentati durante lo spettacolo, molto spesso disastrosi e dunque comici.
(5) Ovvero il cinema che si mostra in quanto tale, metacinema, come nei film che mostrano il set e il “farsi” di un film (Le mépris di Godard o La Nuit américaine di Truffaut).

 


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