TOFIFE 2003 / Sulla mia pelle e I cinghiali di Portici: italiani a confronto PDF 
di Mauro Brondi   

Confrontare i due film italiani in concorso nella sezione Lungometraggi Internazionali del XXI Torino Film Festival è un semplice pretesto per parlare e presentare due pellicole nuove, non minori, che forse troveranno spazio nelle sale nell'immediato futuro. Ma è anche utile per confrontare due modi diversi di fare cinema, diverse visioni che portano nascosto un interrogativo: che strade sta prendendo il cinema italiano? Lontani dalla forte visibilità mediatica veneziana, i film del festival torinese mostrano in modo preciso un legame con le nuove modalità della fiction televisiva (quella per intenderci del lavoro ben confezionato) e un legame con la tradizione neorealista, essenziale e genuina, a suo modo ingenua ma sempre sincera.


C'è un rapporto solo apparente fra i due lungometraggi, vale a dire la situazione di partenza dei protagonisti accomunati dal loro stato di semilibertà: Sulla mia pelle di Valerio Jalongo racconta la storia di Tony (un bravo Ivan Franek) che, ottenuta la semilibertà, viene assunto in un caseificio scoprendo che "fuori" esistono altre prigioni (il ricatto, l'usura) scontrandosi così con la propria forza morale; I cinghiali di Portici di Diego Olivares descrive il mondo di un gruppo di ragazzi "difficili" che vivono in una struttura di recupero e scoprono il gioco del rugby formando una squadra (i Cinghiali, appunto), obbedendo svogliatamente agli allenamenti imposti da Ciro, un operatore del centro.

Se le situazioni di partenza sono simili, immediatamente si delineano sviluppi opposti: Jalongo si affida a un solo protagonista interpretato da un attore professionista, Olivares punta su un film corale interpretato da non professionisti; tanto è costruita la sceneggiatura di Sulla mia pelle, tanto I cinghiali di Portici si affida all'improvvisazione da canovaccio seguita da una costruzione "istintiva" delle sequenze in fase di montaggio, alternando le scene corali all'interno della casa di recupero con quelle degli allenamenti o delle partite. Dal punto di vista della messa in scena troviamo ancora uno scontro: il primo film punta sul rigore stilistico (ci verrebbe da dire rigidità), con precisi movimenti di steadycam o quadri fissi puntualmente scelti, il secondo si avvicina ad uno sguardo documentaristico, con frequenti camere a mano e fotografia sporca. Infine il film di Jalongo trova una conclusione, Olivares lascia il finale aperto e sospeso.

Non abbiamo dubbi nello schierarci dalla parte di Olivares principalmente per la dimostrazione di passione sincera e vitale del suo film. La tradizione del cinema italiano legata al documentario e al realismo è ampia (tutto il neorealismo ma anche ad un certo cinema "sociale" degli anni Ottanta e Novanta: Gianni Amelio de Il ladro di bambini o Lamerica o, per citare un film su ragazzi "difficili", Mery per sempre) e Olivares sembra voler recuperare quella tradizione per sviluppare il tema con spunti di originalità e poesia, serietà ma anche leggerezza. Affrontare visivamente uno sport come il rugby (poco frequentato dal cinema italiano, se si eccettuano Asini di Antonello Grimaldi e Stadio di Carlo Campogalliani [1934]) dimostra il coraggio di un regista legato alla tradizione ma interessato anche ad innovare e a trovare percorsi nuovi, bravo a non dare giudizi di valore e ad avvicinarci ai ragazzi semplicemente mostrandoceli, utilizzando in modo artificioso e funzionale, e ironico, solo la voce fuori campo (sentiamo spesso i pensieri di alcuni ragazzi in voce off, a volte sovrapposti in modo originale ai dialoghi messi in scena). Jalongo tende invece a inserire nel suo film elementi metaforici forzati, pesanti (forse scontati) e troppo costruiti tanto da perdere la sincerità della rappresentazione realista: Tony esce dal carcere e si ritrova in un limbo dove gli animali sono tenuti ingabbiati (facile richiamo ai compagni dell'uomo in carcere), le regole a cui è sottoposto sul posto di lavoro sono simili a quelle della prigione (a sottolineare la continuità fra carcere e stati di libertà e semilibertà), il percorso del protagonista è lineare verso una semplice "uscita" (al primo impiego Tony, alla mungitura, non riesce a respirare, ma immediatamente passa al settore consegne, sul furgone a fianco dell'autista, con il finestrino abbassato e la testa fuori).

 

Se I cinghiali di Portici coinvolge maggiormente lo spettatore è anche grazie ad una prova corale di recitazione da parte dei ragazzi, tanto che la squadra di rugby messa insieme da Ciro sembra riflettere anche il lavoro di Olivares. Così la squadra amatoriale di rugby è anche quella che il regista allena, fra attori professionisti e non (e veri professionisti del rugby italiano) riuscendo a trovare il giusto e difficile compromesso fra amatorialità e soluzioni di messa in scena semplici, quasi casuali, come colte sul vivo, ma efficaci e vincenti. La spiaggia degli allenamenti, i campi verdi di rugby e il centro di recupero con luci al neon fredde e anonime sono i tre luoghi in cui si sviluppa il film, a dimostrazione di una ricerca precisa di essenzialità capace di dare al film la poesia ma anche la grandezza dell'impresa dei Cinghiali che arrivano a giocare la loro finale. La stessa cosa non riesce a Jalongo, troppo concentrato a dare forma ai suoi personaggi attraverso la costruzione rigida della sceneggiatura (scritta dal regista con Rosella Gualtiero e Enzo Civitareale) che ha il solo grande merito di mettere in luce la condizione di chi vive in semilibertà dovendo rientrare in un mondo spesso meno pulito dei detenuti, ma che ci ricorda troppo da vicino il linguaggio della fiction televisiva.

In sostanza i due film "torinesi" fanno riflettere sull'invasione dell'estetica televisiva da un lato, tendente alla semplificazione, e, dall'altro, sull'eredità della storia del cinema italiano che ancora pesa, se non altro, almeno come colonna sonora di sottofondo (pensiamo anche ai recenti Respiro, L'imbalsamatore, La finestra di fronte) capace di tendere verso l'essenzialità. A concludere ci viene incontro il Premio Holden che ha segnalato I cinghiali di Portici per la sceneggiatura: essere semplici a volte paga.

 


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