Polisse PDF 
Elisa Mandelli   

La Brigade de Protection des Mineurs è quell’unità della polizia francese chiamata a risolvere casi di abusi, incesti, stupri e violenze ai danni di minorenni. Melissa, giovane fotografa proveniente dai ranghi dell’alta società parigina, viene incaricata di realizzare un reportage per il Ministero dell’Interno sulla sua attività, e a questo scopo affianca le operazioni dell’eterogenea ma coesa squadra di Belville. Con una mise en abyme che passa attraverso il suo stesso corpo (è infatti sia regista che interprete del personaggio di Melissa), Maïwenn non solo rende esplicita la prospettiva da cui approccerà il suo oggetto (una posizione prossima ma non del tutto interna al gruppo di poliziotti), ma svela anche immediatamente la posta in gioco, e articola con chiarezza i vari livelli su cui si sviluppa il film.

In primo luogo il racconto dell’attività della sezione di polizia in cui, più che una serie di casi, a intrecciarsi sono le storie da una parte di un gruppo di poliziotti, dall’altra della varia (e variamente disperata) umanità che si trovano a soccorrere, o reprimere. Di quest’ultima, a ben vedere, non cogliamo che attimi di una parabola (quasi sempre discendente) che inizia e finisce altrove: di fronte al quotidiano sfilare di vicende fatte di immoralità e perversione, ignoranza e povertà (materiale, ma spesso più che altro d’animo), raramente vediamo i crimini nel loro compiersi, e in un solo caso ci è dato di cogliere, come per inciso, la sorte di uno dei bambini che ne è stato vittima. Non appena si affaccia al di fuori del commissariato, la linea del racconto si spezza per lasciare spazio al dipanarsi di un’altra, e a essere messo a fuoco è piuttosto il momento in cui l’atto colpevole, subito o inflitto, viene alla luce attraverso la parola, che sia denuncia, confessione, serrato interrogatorio. Sta qui uno dei punti chiave della pellicola, del quale possiamo già osservare una conseguenza sulla sua struttura complessiva: più che muoversi sull’articolazione orizzontale di ciascuna storia, la narrazione gioca per così dire sulla verticalità. Se ogni vicenda non si dà che nella forma del frammento, con ciò implicando una potenziale assenza di coinvolgimento tanto dei poliziotti quanto dello spettatore, il racconto conquista invece un’intensità capace di calarsi fin nel cuore di ciascuna realtà, sondandone senza difese le profondità emozionali.

Ne deriva un andamento sapientemente discontinuo, fatto di un susseguirsi, e non di rado sovrapporsi, di sentimenti di tono e intensità diversa, su cui si innesta una serie di picchi emotivi volutamente enfatizzati, accentuati quasi a renderne più efficace il ruolo di catalizzatori, di valvole di sfogo del destabilizzante accumularsi di tensioni. Così è per la dolorosa separazione di una madre senzatetto dal figlio, il cui pianto senza consolazione non può placarsi se non per sfinimento; così accade nella serata che l’intera squadra trascorre a ballare, momento liberatorio dopo giornate di apprensione per la sorte di un neonato: la durata della scena pare eccessiva, e la carica di entusiasmo che i poliziotti dimostrano tradisce forse, più che una voglia di vita e di normalità, il disperato tentativo di liberarsi di un indelebile orrore di fondo. Ad essere in questione è qui più da vicino il modo in cui la pellicola racconta le storie degli agenti della Brigade de Protection des Mineurs. Apparentemente esse sembrano articolarsi su due piani, quello lavorativo (i casi da risolvere, i rapporti con i colleghi e con il resto del corpo poliziesco) e quello della vita privata (la famiglia, i figli, gli amori). Eppure nessuna scissione tra i due è in realtà possibile, e pare piuttosto di trovarsi di fronte a un groviglio inestricabile di problemi, in cui è difficile individuare cause e conseguenze di un malessere che dal commissariato si insinua nei nuclei domestici, e da essi si rifrange nuovamente, amplificato, sull’ambiente professionale. L’innocenza nel rapporto con i figli diventa impossibile (dietro un semplice bagnetto si agitano gli spettri dell’incesto), il dialogo con i partner è interdetto dalle brutture di storie che non troverebbero spazio a tavola durante la cena, e dall’altra parte il distacco diventa irraggiungibile se in ogni vittima infantile si può da un momento all’altro riconoscere uno sguardo del tutto simile a quello del proprio bambino. Questo nodo di tensioni che rende inseparabili vita privata e lavorativa, ambito domestico e commissariato, riflette un più ampia sovrapposizione tra ordini differenti: nel suo mettere in scena una professione che intreccia quanto di più privato c'è nelle vite degli altri, la pellicola rende infatti impossibile una distinzione netta tra il personale e il pubblico, o meglio tra ciò che si svolge nell’intimità del nucleo familiare e la necessità, per correggerne la devianza, di portarlo alla luce, di dargli corpo attraverso le parole, il racconto.

Emerge qui il secondo dei livelli in cui, si accennava all’inizio, si articola Polisse. Un livello che, lo si intuisce immediatamente, implica una riflessione sullo sguardo stesso, e più in generale sulla possibilità di descrivere l’orrore al centro della narrazione. A partire dall’inclusione nel sistema dei personaggi della figura di Melissa, la pellicola tematizza infatti su diversi piani la problematica della rappresentazione di qualcosa che non solo è profondamente intimo e doloroso (e perciò difficile da comunicare senza cadere nella morbosità o nella spettacolarizzazione), ma anche che normalmente avviene di nascosto, spesso letteralmente al buio, e dunque per sua natura appartiene al regime del non visto, del non detto. La questione è allora come portare all’esterno, come far vedere o anche solo immaginare determinati fatti, come farne emergere i contorni dalla nebbia dell’illecito. Con questa difficoltà si confrontano da un lato gli agenti, nella loro quotidiana battaglia contro la reticenza, il pudore o la vera e propria incapacità di descrivere (e prima ancora di comprendere, come per i bambini) le dinamiche della violenza, e dall’altro lato la fotografa (e la regista) che devono restituirne le dinamiche concrete. Nel primo caso la risposta è un tentativo di aderenza asettica tra le parole e le “cose”, tra i gesti e le espressioni usate per descriverle: il lessico volutamente esplicito dei poliziotti non è che gergo professionale (per quanto poi, come in altre occasioni, tenda a sconfinare nella vita privata), un tentativo di includere in griglie e tassonomie condivise la peculiarità di ogni storia, che non riesce tuttavia a evitare che le parole apparente “scientifiche” e denotative investano con la loro carica perturbante.

Una tale dinamica percorre anche le immagini, come traspare dalle modulazioni dello sguardo di Melissa, dapprima artificialmente freddo e distaccato (gli occhiali finti), accompagnato da un’aria compassata e un po’ smarrita, e man mano più aperto, fino a diventare pienamente coinvolto. Prima le sue foto colgono ancora la superficie, con un’enfasi sul dolore e sulla brutalità così come si manifesta da una parte (nelle violenze sui ragazzi) e, apparentemente, dall’altra (nelle scelte non sempre indolori, ma non di rado obbligate, dei poliziotti). Perché questa visione ancora rigida e priva di sfumature venga superata, è necessario che la fotografa passi attraverso una dinamica di scontro (con gli agenti, che mettono in questione l’autenticità del suo sguardo), riconciliazione (con il suo principale accusatore, ma anche con l’oggetto - o meglio i soggetti - da rappresentare), e “innamoramento”, metaforico e professionale (l’apertura alla dimensione emotiva del proprio lavoro), ma anche personale e letterale (la relazione con uno dei poliziotti). Come se lo sguardo non funzionasse quando non è coinvolto, quando non partecipa del pericolo dell’azione (nell’imboscata al centro commerciale) e insieme del sentimento.

Così, per ciascuno dei protagonisti quella che si manifesta è l’impossibilità del distacco, del controllo freddo e indifferente, e in questa accettazione del disequilibrio pare risiedere l’unico equilibrio ad essi concesso. Qui sembrerebbe condurci la pellicola, se non introducesse, proprio sul finale, come una sorta di falla, una contraddizione che ancora una volta agisce sul duplice piano della storia e della sua messa in immagine. Innanzitutto se i conflitti che si erano aperti nell’ultima parte della narrazione paiono risolversi, stemperati dalla pausa estiva e appianati dai nuovi assetti nel microcosmo del commissariato, lo shoccante gesto finale di Iris, una degli agenti, dimostra come le sofferenze consumino ben più a fondo, a volte senza possibilità di riscatto, o anche solo di compromesso. Dall’altra parte, significativamente, non vediamo mai le foto scattate da Melissa: forse a significare la totale sovrapposizione con lo sguardo della macchina da presa, di quella camera a mano aderente ai personaggi che ce ne offre un ritratto compiuto, equilibrato e onesto. Ma forse a suggerire il sospetto che in fondo quelle immagini non saprebbero dirci niente della verità del lavoro della Brigade, la cui lotta rimane fatalmente in quell’indicibile contro cui essa stessa lotta quotidianamente.

 


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