Cous cous PDF 
Elisa Mandelli   

Dopo oltre trent’anni di lavoro in un cantiere navale, Slimane viene licenziato perché, a detta dei suoi capi, ormai poco produttivo. Ad addolorarlo di più è però la sensazione di essere diventato inservibile anche agli occhi dei suoi stessi figli, i quali insistono perché torni nel suo paesino in Tunisia, per godersi una vecchiaia cui egli non intende tuttavia arrendersi. A credere ancora in lui è solo Rym, la figlia adolescente della nuova compagna, che con una fiducia tenera e ostinata lo asseconda in ogni passo del suo nuovo ambizioso e (solo apparentemente?) folle progetto: aprire un ristorante su una vecchia barca rimessa a nuovo per l’occasione. Specialità della casa il cous cous di pesce preparato da Karima, la prima, irascibile e ben poco conciliante moglie di Slimane, resasi disponibile solo per amor dei figli. Ai problemi familiari si affiancano quelli socio-economici (che emergono da un essenziale ma lucido scorcio sulla realtà della piccola cittadina portuale, dove le tradizionali professioni legate al mare e alla pesca sono in crisi), ma anche quelli con i rappresentanti delle istituzioni, poco inclini a dare fiducia, e dunque finanziamenti e permessi, non tanto a un immigrato, quanto piuttosto a un esponente della classe popolare.

L’articolarsi delle vicende vede dunque un continuo emergere, e attorcigliarsi tra loro, di una serie di conflitti di ordine diverso, che tutti insieme esplodono nella dirompente sequenza finale. Di questi conflitti si impone, più che il rigido concatenarsi causale (che pure si fa via via più stringente), la capacità di liberare energia, di sostanziare con la propria carica – anche distruttiva – il dispiegarsi delle singole scene. Ed è proprio la scena l’unità di base di Cous cous: lo sviluppo della narrazione procede attraverso l’accostamento di una serie di blocchi autonomi, di nuclei drammatici dotati di un proprio sviluppo interno, la cui temporalità si dilata fin quasi al parossismo, fino a imporsi, con un effetto quasi straniante, sulla temporalità della pellicola intera. Le due ore e mezza complessive passano in un attimo, mentre ogni singola scena sembra prendersi un tempo se non eccessivo, in qualche modo eccedente. Così, più che chiudersi davvero, le situazioni sembrano spegnersi man mano, esaurirsi, quasi consumarsi. Quello che conta è solo la durata: non c’è nessun punto cui bisogna necessariamente arrivare, nessun traguardo narrativo da tagliare. Anzi, spesso la sensazione è che ciò che è davvero importante si svolga fuori campo: altrove (come il furto del motorino durante la sfuriata di Julia), o un attimo dopo (nel finale, l’arrivo di Latifa col nuovo cous cous, che potrebbe – ma forse ormai poco importa – salvare la serata). 

Per quanto si impongano per la loro compattezza, i diversi blocchi narrativi sono a loro volta costruiti a partire da un’estrema frammentazione. Delle inquadrature innanzitutto: lo spazio è completamente scomposto in un susseguirsi spesso frenetico di primi e primissimi piani, che fanno del volto, degli occhi e, soprattutto, della bocca di ciascun personaggio parte di un variegato e instancabilmente cangiante mosaico. O piuttosto di un coro dalla sorprendente polifonia, in cui le voci si rincorrono e si sovrappongono, le parole si incastrano e si avvinghiano. Nel loro ipertrofico concatenarsi queste ultime non bloccano l’azione, piuttosto agiscono esse stesse, imponendo agli eventi direzioni impreviste e imprevedibili, creando, disgregando e ridisegnando senza tregua legami, contrasti, alleanze. Niente, dunque, è dato una volta per tutte. Così, se il nutrito gruppo di anziani ospiti della pensione sembra, in una lunga conversazione, disapprovare o addirittura deridere il progetto di Slimane, basta l’intervento della voce entusiasta e solidale di Rym a rovesciare il segno delle loro chiacchere, trasformandole in una gara di solidarietà nei confronti dell’intraprendente coinquilino.

Ancora, è il modo di esprimersi a caratterizzare in modo forte i personaggi, persino quando, come nel caso di Slimane, la parola si dà soprattutto nella sua assenza. Accanto all’arabo, a un francese con la cadenza del mezzogiorno e a qualche parola di russo (di una delle nuore del protagonista), si percepisce, soprattutto nella vivace loquacità della giovane Rym, l’inesorabile penetrazione dell’inglese. In questo proliferante impasto linguistico ogni personaggio si ritaglia il proprio spazio, assume il proprio profilo insieme coerente e ricco di sfumature, lasciando man mano emergere tic, leitmotiv e idiosincrasie. Eppure, a un certo punto, anche la parola è costretta a fermarsi. Quando nessuna retorica ha più effetto sull’implacabile concatenazione degli eventi, sta ai corpi farsi carico di risolvere conflitti che paiono insanabili. È questo il passaggio che, annunciato fin dall’incipit (con Majid che si abbandona al corpo provocante della sua amante), si compie pienamente nel finale. Mentre nessuna motivazione addotta per il ritardo nell’arrivo del cous cous sembra reggere, i figli di Slimane non possono che spostarsi meccanicamente avanti e indietro su quella barca il cui spazio chiuso e ristretto diventa, da accogliente, improvvisamente claustrofobico.

Ancor più disperato è il tentativo del padre e della figlia adottiva, impegnati ciascuno a suo modo a difendere il sogno costruito insieme, con uno sforzo il cui unico esito si rivela essere lo sfinimento. Da una parte la danza del ventre dalla sensualità spontanea e un po’ acerba di Rym si trasforma in una sorta di danza macabra, la cui iniziale freschezza viene soffocata dalla fatica, dal peso dell’età dei musicisti che la circondano sempre più da vicino, e, forse, da una progressiva presa di coscienza dell’inutilità del gesto. Dall’altra il protagonista si perde in una corsa vana, della cui assurdità è probabilmente il primo a essere consapevole, finché il suo corpo esausto e prostrato sancisce l’irrimediabile sconfitta. Slimane, alla fine, ha perso. Ma ha perso forse non solo per la serie di circostanze che lo colpiscono quando è ormai prossimo al raggiungimento del suo obiettivo. Più in profondità, egli sembra essere vittima di logiche che esulano dalla sua vicenda personale, come ci diventa immediatamente chiaro quando, durante la cena finale, sentiamo i rappresentanti del comune e delle banche decretare che, per il volenteroso ma pur sempre proletario Slimane, nel loro sistema non c’è posto. È forse per questo che non conta se gli invitati assaggeranno il (pessimo, come abbiamo appreso) cous cous di Latifa, o se Slimane è morto o solo vittima di un malore. Il groviglio di problemi che Cous cous pone è più ampio della storia del protagonista, così come dell’intreccio delle storie di tutti i personaggi. E la soluzione, se c’è, sta a noi alzare lo sguardo per trovarla.

TITOLO ORIGINALE: La graine et le mulet; REGIA: Abdellatif Kechiche; SCENEGGIATURA: Abdellatif Kechiche, Ghalya Lacroix; FOTOGRAFIA: Lubomir Bakchev; MONTAGGIO: Ghalya Lacroix, Camille Toubkis; PRODUZIONE: Francia; ANNO: 2007; DURATA: 151 min.

 


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