È sempre difficile scrivere qualcosa riguardo al cinema di Takashi Miike, regista iperattivo, eclettico e diseguale, autore di un numero enorme di film. Difficile perché ogni suo lavoro si inserisce in un percorso tortuoso, complesso, quasi indefinibile, ma allo stesso tempo potrebbe apparire un oggetto a sé stante, pur senza esserlo. 13 Assassini è il suo primo jidai geki, genere “cappa e spada” orientale, ma mantiene tanti ed evidenti legami con molta della produzione precedente di Miike: intrecci western, situazioni yakuza, uso ipertrofico della violenza, una certa ironia … 13 Assassini però, al di là della costruzione narrativa e dei rimandi presenti al suo interno, al di là delle componenti stilistiche ricercate e di un accuratezza formale estrema, è sopratutto un grande film sul potere: quello di ieri, del Giappone feudale, ma anche quello di oggi, di una contemporaneità che ha radici remote, quasi pre-moderne.
Miike sceglie, come nel caso di molti altri jidai geki (The Twilight Samurai di Yôji Yamada su tutti), di ambientare la vicenda alla fine dell’epoca Tokugawa, alle soglie della modernità. Non lo fa però per raccontare la fine di un era, quella dei samurai, quanto per mettere in scena la perversione del potere nel nostro presente. Certo, i suoi protagonisti, “gli assassini”, sono antieroi decadenti, crudeli, spietati e cinici, ma con un’etica di fondo, come certi personaggi di Peckinpah. Il loro è l’ultimo grido dei combattenti che appartengono a un tempo ormai giunto al tramonto. Tuttavia, ciò di cui sembra davvero volerci parlare Miike è di come si organizzava socialmente quel mondo distante ma così inquietantemente vicino. Di come un potere che si credeva inviolabile esercitasse la propria autorità sugli individui, arrivando a controllare ciò che di più sacro possiedono: il corpo. Sono infatti i corpi martoriati di due donne a dare il via all’azione. Il corpo violentato (e suicida) di Chise e quello mutilato, privato anche della voce (Narigitstu le taglia gambe, braccia e lingua), della figlia del capo dei contadini. I loro corpi sono carne che urla vendetta. Non a caso, in uno dei momenti emotivamente più potenti del film, Shinzaemon (il capo degli “assassini”), per rivelare la sorte che attende Naritsugu e le sue truppe, mostra loro il foglio di carta con il quale la figlia del leader contadino aveva raccontato l’ordine dato dallo stesso Naritsugu giunto nel villaggio dei ribelli: massacro totale. I 13 assassini restituiranno al potere il suo terrore, lo trascineranno con forza nella strada, nel luogo dove avviene la vita pubblica, in modo che tutti possano assistere al suo spettacolo osceno. Il caos, il disordine, il rumore nascosto dallo Shogun e dai suoi dentro stanze e palazzi, occultato nella speranza di rimanere un diritto divino e intoccabile, si ritorcerà contro di loro in una battaglia che occupa gran parte del film, riuscendo a non essere mai “di troppo”. Una battaglia che possiede l’essenzialità delle cose di cui si sente il bisogno, pur con suoi eccessi ipercinetici e barocchi.
La violenza dei 13 diventa rivoluzionaria, liberatoria e levatrice di progresso nella misura in cui si oppone a quella dello Shogun, figura che non interviene e non si vede, ma che dall’alto decide la sorte di ognuno, facendo, come le divinità, dei propri desideri legge. Simile così ai tanti potenti contemporanei con i maglioni casual e dal sorriso accomodante, pronti a barattare la vita di un uomo per un aumento dei dividendi. Contro l’arroganza di chi dall’alto desidera morte perché non è in grado di concepire il dolore e la sofferenza (“Fa male”, dice Naritsugu ferito, stupito come se non potesse nemmeno immaginarlo), anche il gesto più crudele acquista un senso di estrema pietà, perché compiuto nel nome di chi ogni giorno soffre, mortificato e oppresso. Anche la vendetta, se colpisce un potere ingiusto, può rivelarsi sovversiva. Miike mette però in scena questa sovrabbondante e necessaria violenza, senza troppo compiacimento ludico, rinunciando al distacco ironico di alcuni suoi film precedenti. Il sangue in 13 Assassini si ferma a terra, sui corpi dei morti e su quelli di chi sopravvive, segnando per sempre l’esistenza di tutti. La violenza, anche quando generata da un’urgenza, è un marchio indelebile, e colui che la compie, per quanto consapevole di essere nel “giusto”, è destinato a portarne per sempre il peso.
TITOLO ORIGINALE: Jûsan-nin no shikaku; REGIA: Takashi Miike; SCENEGGIATURA: Takashi Miike, Daisuke Tengan; FOTOGRAFIA: Nobuyasu Kita; MONTAGGIO: Kenji Yamashita; MUSICA: Koji Endo; PRODUZIONE: Giappone/Gran Bretagna; ANNO: 2010; DURATA: 141 min.
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