La pelle che abito PDF 
Francesca Druidi   

Non ha mancato di suscitare opinioni contrastanti l’ultimo film di Pedro Almodóvar, La pelle che abito, presentato in concorso alla più recente edizione del festival di Cannes, vuoi per i temi che la pellicola arriva a sfiorare – la bioetica, i limiti che la scienza, e la chirurgia estetica, dovrebbero più o meno porsi –, vuoi soprattutto per la discussione relativa alla ricerca, da parte del cineasta spagnolo, di una cifra stilistica in qualche modo diversa, più matura, rispetto a quella finora mostrata nei suoi precedenti lavori.

Robert Ledgard (Antonio Banderas, che torna a essere diretto da Almodóvar dopo ventun’anni) è un eminente chirurgo plastico che ha speso molti anni della sua vita, e della sua carriera, nello sviluppo di una pelle artificiale che, per resistenza e flessibilità, sia in grado di restituire un’alta qualità della vita a chi, a causa di incidenti oppure ustioni – com’è accaduto a sua moglie – non riesce più a riconoscersi nel proprio corpo. Per ottenere questo risultato, Ledgard, scienziato senza scrupoli, non ha esitato a sfruttare ogni orizzonte possibile, incluse le terapie transgeniche. All’inizio del film vediamo proprio il presidente dell’Istituto di Biotecnologia, interpretato da José Luis Gómez, convincere il professionista a desistere dal commercializzare il progetto per il probabile scandalo che ne sarebbe scaturito presso l’opinione pubblica. Ciò che l’emerito presidente ignora è che gli esperimenti del dottor Ledgard non si esauriscono con le ricerche sulla pelle artificiale. Molti, infatti, sono i segreti che il chirurgo nasconde nella sua isolata, elegante quanto inquietante, residenza di Toledo, El Cigarral, aiutato nella sua opera di protezione dagli sguardi esterni da Marilia (Marisa Paredes), la domestica della casa ma soprattutto la sua complice più fedele, legata all’uomo da vincoli profondi. Inoltre, una misteriosa giovane donna, di nome Vera (Elena Anaya), vive relegata contro la sua volontà in una delle stanze della casa, sorvegliata da videocamere che proiettano le immagini su due schermi posizionati in cucina e su un enorme schermo collocato direttamente nella camera da letto di Ledgard. La prigioniera, che indossa sempre una calzamaglia color carne, aderente al corpo come una seconda pelle, trascorre le sue giornate tra plastiche sedute di yoga e la creazione di surreali sculture che s’ispirano alle opere di Louise Bourgeois. Il suo unico contatto con il mondo è una televisione che permette la visione di pochi canali e un citofono tramite il quale scambiare poche parole con Marilia, che le invia cibo e libri attraverso il montacarichi. È durante il carnevale che i destini intrecciati di Robert, Marilia e Vera, destini la cui natura è fino quel momento rimasta oscura agli spettatori, subiranno la svolta decisiva: un uomo, travestito grottescamente da uomo-tigre, riesce a infiltrarsi nella realtà parallela costruita da Robert, rompendone il fragile equilibrio e imprimendo alla narrazione lo slancio verso la ricostruzione, tramite flashback, del passato dei protagonisti e soprattutto delle ragioni, nonché delle emozioni, che guidano il loro agire.

Per La pelle che abito, Pedro Almodóvar non rinuncia nella sua impalcatura narrativa a strizzare l’occhio ai generi, melò, horror, thriller e noir, assorbendo riferimenti letterari (il romanzo Tarantola di Thierry Jonquet, Frankenstein di May Shelley, il mito di Prometeo e di Galatea) e cinematografici (Occhi senza volto di Georges Franju, Luis Bunuel, Alfred Hitchcock, Fritz Lang), filtrandoli però attraverso un’estetica austera, rigorosamente priva di derive pop o camp ed emotivamente filtrata, quasi come le immagini di Vera restituite dagli schermi di El Cigarral. Nonostante l’asciugatura stilistica, il patrimonio di tematiche care ad Almodóvar emerge però evidente dalle pieghe del discorso filmico: l’ineluttabilità del destino, la continua giustapposizione di eros e thanatos, l’importanza della memoria, l’identità di genere, l’ossessione amorosa, le dinamiche familiari e sentimentali, dove non manca, anche in questo caso, la presenza di madri tragiche e controverse. Il risultato è un’opera contrastante, monca del carattere poetico ed emozionale che ha contraddistinto altri lavori del cineasta iberico, ma dotata di una forza disturbante che non lascia indifferenti e che resta anche a distanza di tempo dalla visione. Il film può essere definito una “lucida follia”, una complessa declinazione del tema del doppio densa di significati e di rimandi, dove i protagonisti sono personaggi inclini alla follia e alla morbosità. Tutte le componenti della pellicola, dalla fotografia di José Luis Alcaine ai costumi di Paco Delgado (con la collaborazione di Jean-Paul Gaultier), dalla musica di Alberto Iglesias alla scenografia di Antxon Gómez (carica di atmosfera e rivelatrice dell’animo dei personaggi come in Rebecca di Hitchcock), sino alla recitazione volutamente inespressiva di Banderas, contribuiscono a veicolare l’assunto fondamentale espresso da Almodóvar in questo film: è possibile cambiare pelle, mutare il proprio aspetto esteriore, ma l’identità resta per l’essere umano un elemento imprescindibile, inviolabile, anche quando è messo duramente alla prova da violenza, dolore, privazioni, soprusi.

Non è un film perfetto o che inviti con facilità all’empatia, La pelle che abito – il parallelismo simbolico tra la pelle e il cinema per Almodóvar rischia in ogni momento la forzatura –, ma si rivela senza dubbio un personale inno alla capacità dell’uomo e della donna di sopravvivere a qualunque costo (grazie anche al ruolo non irrilevante giocato dall’arte e da ciò che in generale permette l’espressione del proprio Io), capace di sfociare in un finale trattenuto ma commovente.

TITOLO ORIGINALE: La piel que habito; REGIA: Pedro Almodóvar; SCENEGGIATURA: Pedro Almodóvar; FOTOGRAFIA: José Luis Alcaine; MONTAGGIO: José Salcedo; MUSICA: Alberto Iglesias; PRODUZIONE: Spagna; ANNO: 2011; DURATA: 117 min.

 


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