Martyrs PDF 
Michele Segala   

In questo inizio di ventunesimo secolo il genere che va sotto il nome di horror vive una fase di restyling e di ridefinizione che lo allontana vieppiù da molti film che sono stati icone del genere nel secolo scorso. O meglio: se con gli anni Sessanta e Settanta il cinema americano iniziò a produrre film che si andavano distanziando dall’horror fumettistico o dall’horror fantascientifico (e fantapolitico) nato dai b-movies degli anni Quaranta e Cinquanta, allo stesso modo negli anni Duemila (e fine Novanta) i film che hanno accolto il maggiore favore del pubblico e hanno aperto una nuova via, hanno rotto con gli schemi dell’horror dei vari Halloween, La Casa, e dei Carpenter, Tobe Hooper, Romero… L’inizio del nuovo horror, o meglio la fine del vecchio, è forse avvenuto nel 1996 con il primo Scream: in un qualche modo come aveva fatto Sergio Leone con il western, così Wes Craven mettendo in scena le regole del genere (anche se ridicolizzandole e appiattendole) diede il colpo di grazia all’horror. Craven, evidenziando del genere tutti i cliché (la ragazza ingenua, il mostro che torna sempre, la cittadina isolata, e via dicendo) con quello che forse è stato il primo horror metafilmico della storia non solo metteva in mostra una difficoltà oggettiva (dell’epoca) che aveva il genere a rinnovarsi, ma ne indicava anche una via d’uscita: la riflessione su cosa sia il genere. Cosa sia un horror. Cosa sia la paura, e quali i suoi meccanismi. E allora non è un caso che il nuovo millennio sia stato tutt’altro che parco di film che spostavano l’interesse dai personaggi (la sfiducia nella possibilità di poter raccontare una storia) ai meccanismi dell’horror stesso. Che si tratti dall’horror di stampo asiatico (e metafisico) alla The Ring, al torture porn stile Saw o Hostel, molti dei nuovi film di successo horror amano giocare con le regole del genere, rifiutando molti dei capisaldi (narrativi) che fino agli anni Novanta erano rimasti intatti (nonostante i tentativi di riqualificazione autoironici di Wes Craven), e su tutti uno: la fiducia nella storia. Per quanto potesse apparire trita. Perché in realtà l’horror è sempre stato il racconto per eccellenza, in questo la versione moderna della fiaba: uno schema fisso, e diversi personaggi in cui identificarsi. In poche parole, l’horror era la Metafora, e i suoi personaggi erano la Razza Umana.

Martyrs arriva quasi alla fine del primo decennio di questo nuovo secolo, e se non tira le conclusioni con quello che è stato questo nuovo horror poco ci manca. Non che il film di Laugier appartenga a una qualche corrente specifica (seppure nell’importanza che dà alla visualizzazione del dolore fisico abbia più di un tratto in comune col torture porn), ma di certo, con il suo essere un’opera così volutamente programmatica, si presta bene a sottolineare quali siano le spinte creative dietro a molti di questi recenti film. Infatti, seccamente diviso in due parti (con un intermezzo centrale che fa da congiunzione tra le due), il film francese ha nella prima uno sviluppo piuttosto semplice e scontato: una ragazza dopo anni di tortura cerca vendetta, e la trova sterminando una famiglia apparentemente tranquilla ma in realtà colpevole delle sevizie da lei subite in più tenera età. Non manca neppure un misterioso essere rivoltante (con le usuali riprese in primissimo piano davanti alla mdp mentre appare e scompare veloce come un’ombra nera agli occhi dello spettatore) che perseguita la ragazza (facilmente intuibile come un suo doppio). La seconda parte è invece tutt’altra storia: morta la ragazza che credevamo protagonista, l’amica che l’aveva aiutata per tutta la vita così come aveva fatto dopo il massacro da lei compiuto, si ritrova scaraventata nello stesso incubo subito dall’amica anni addietro, così come da molte altre ragazze prima (ma soprattutto) dopo di lei. Perché in realtà quei crimini (le ragazze legate ad una sedia e torturate per giorni) non erano affatto casuali o frutto di una singola mente malata, bensì un esperimento condotto da un qualche gruppo d’elite che da anni compie simili atti nella convinzione che solo attraverso il dolore fisico un essere umano possa trascendere il proprio stato, e quindi vedere al di là. I martiri altro non sarebbero che testimoni di una realtà (l’aldilà, se si vuole) altrimenti irraggiungibile ai comuni mortali.

Si diceva film programmatico. Film programmatico innanzitutto per la struttura del film stesso: se infatti il film inizia e continua per tutta la prima parte come un normale film horror (con la protagonista che punisce e si autopunisce tra bagni di sangue), dando così allo spettatore il solito spettacolo della violenza “vista da fuori”, con la seconda parte invece lo spostamento è verso l’interno: la violenza che subirà la (nuova) protagonista altro non è che la violenza che ci era stata prima solo raccontata con distanza e data in parte per scontata. In più la scelta di regia estremamente sobria e fredda (brevi sequenze intervallate da dissolvenze in nero), combinata con una reiterazione prolungata fin quasi all’annullamento del senso drammatico di simili sequenze (che pur di torture si tratta), viene a costruire un percorso parallelo tra protagonista e spettatore: entrambi vanno via via assuefacendosi alla violenza (o alla sua idea, se si preferisce), riuscendo così ad accettarla. Il problema (se non si dà un valore particolarmente negativo o detrattivo all’insistenza per l’esibizione della violenza di per sé) sta nel mezzo e nel fine (o nel finale).

Ma andiamo per ordine. Come già detto il film del regista di Saint Ange è molto ambizioso. Di fatto si prefigge di riuscire nel tentativo di far compiere allo spettatore lo stesso percorso (almeno a livello intellettuale) che percorre una delle due protagoniste (quella che vive più a lungo, ovviamente) all’interno del film. E allo stesso tempo facendo passare per credibile (o almeno non risibile) la tesi che attraverso il martirio sopraggiunga una nuova consapevolezza. Bene, per fare questo (che non è certo poco, anzi), è richiesta un’orchestrazione molto attenta in campo tanto di regia quanto di sceneggiatura. Perché, proprio per il fatto che il terreno è così accidentato, il minimo errore comporterebbe uno scivolone, e farebbe finire il regista con il culo per terra e lo spettatore con una risata stretta tra i denti. Cosa che purtroppo puntualmente avviene nell’intermezzo: morta la supposta protagonista, l’amica si vede piombare nella casa un gruppo di persone armate con tanto di giubbotti antiproiettile (un maschio alfa ed una donna-macho nel gruppo) che si atteggiano a personaggi usciti da un brutto episodio di X-Files (“Il telefono è sganciato…Non dovrebbe mai essere sganciato!” afferma uno di questi), mentre di gran carriera ecco arrivare persino il Personaggio Misterioso nella versione Vecchietta Buffa (bassa, occhialoni, e un parruccone alto in testa) che, come se non bastasse, vede bene di dare allo spettatore il colpo letale prodigandosi nel cosiddetto “spiegone”. Dicesi spiegone: l’azione si ferma e arriva un personaggio che per 3-4 minuti spiega ad uno dei personaggi (ma il vero destinatario è il pubblico) cosa è accaduto e cosa accadrà. Ovvero l’anticinema. Semplicemente perché ogni volta che un regista ricorre a uno spiegone abdica alla funzione stessa del cinema, ovvero narrare con immagini. Spiegone e intermezzo decisamente maldestri dunque, soprattutto se posti proprio ad introdurre la parte più cerebrale del film, quella che dovrebbe portare lo spettatore a dare per buona la tesi di fondo (il martirio che etc etc...).

Appunto, la tesi del film: non è chiaro quanto essa sia solo funzionale alla struttura (o al gioco del regista), ma è comunque certo che voler far credere (anche solo in un film) che si possa davvero raggiungere non solo una nuova coscienza, ma persino una sorta di pace dei sensi attraverso la somministrazione di torture, sia di un gusto piuttosto discutibile. Per i ragionamenti esposti precedentemente sull’horror non si può certo che pensare che l’operazione di Laugier sia stata intrapresa su quella scia, cioè all’interno dell’idea di un horror che riflette su stesso (per cui il martirio in questo caso altro non sarebbe che l’esperienza visiva di uno spettatore dell’horror). Detto questo rimane comunque disturbante assistere ad un film la cui tesi di fondo potrebbe calzare bene indosso a tanti fondamentalismi religiosi, tanto più in un film che si prende così tanto sul serio.  Tutto ciò vale naturalmente per chi crede nella bontà (a livello di costruzione) di un tale film, tanto da voler (o riuscire a) mettere da parte la questione del “martirio come…”. Perché, con ogni probabilità, per tutti gli altri, che dopo indicibili torture si possa raggiungere un’alterazione della percezione o addirittura un senso di benessere, non può che risultare stupidamente ridicolo o vergognoso. Infine, va ricordato (repetita iuvant): un film con una posta così alta, e con una struttura così poco aderente a molti altri modelli, non può permettersi molte cadute, e invece Martyrs cade, e fragorosamente, al primo tentativo di cambio di registro. La fa appunto mentre la struttura si palesa come anomala per la prima volta (quindi quando il film è più vulnerabile), e inoltre lo fa mentre si palesano le ragioni stesse del film. Come se non bastasse, il modo in cui queste ragioni si palesano è tanto goffo quanto ridicolo (per una pellicola che si ammanta di tanta serietà autoriale ricorrere a mezzi nemmeno degni di un film di serie B – quale è il famigerato “spiegone” – è tanto più grave).

Per chiudere in bellezza: difficile capire se il finale si possa definire sarcastico o soltanto ridicolo nella sua premeditata voglia di far uscire lo spettatore dalla sala col botto.

TITOLO ORIGINALE: Martyrs; REGIA: Pascal Laugier; SCENEGGIATURA: Pascal Laugier; FOTOGRAFIA: Nathalie Moliavko - Visotzki, Stéphane Martin; MONTAGGIO: Sébastien Prangère; MUSICA: Alex Cortés, Willie Cortés; PRODUZIONE: Francia; ANNO: 2008; DURATA: 97 min.

 


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