Il cinema di Shinya Tsukamoto PDF 
di Domiziano Pontone   

Dovendo citare un regista veramente indipendente, il pensiero non può non andare a Shinya Tsukamoto, una sorta di piccolo miracolo artigianale nato nel Giappone dei colossi produttivi e fagocitanti, piccola favela in via di progressivo sviluppo tra i grattacieli opprimenti, benché bellissimi, di Tokyo.
L'ansia di autonomia porta Tsukamoto a controllare in maniera quasi totale tutte le fasi di una propria pellicola, eccettuata la colonna sonora, che suole scegliere insieme al fidato collaboratore Chu Ishikawa in base alle scene da commentare.

L'autore del Sol Levante capisce qual è la sua strada durante la quarta classe, a meno di 10 anni, quando viene in un certo senso costretto da una recita scolastica a combattere la timidezza che lo fa sembrare taciturno e isolato.

I suoi primi tentativi di plasmare in pellicola i suoi incubi cyberpunk - che l'hanno reso noto a partire da Tetsuo - sono il cortometraggio Mostri di grandezza naturale (1986) e il mediometraggio Le avventure di Denchu Kozo (1987), opere nelle quali emergono latenti alcune delle sue tematiche predilette e i debiti più evidenti col cinema statunitense.

Il salto di qualità coincide col suo primo lungometraggio, Tetsuo (1989): snobbato dai suoi connazionali ("dopo la proiezione – ricorda – il pubblico se ne andò senza neanche salutare, poi, dopo il successo, vennero a complimentarsi per dirmi che era loro piaciuto") vince da outsider il "Gran Prix" a Roma e fa conoscere, nonostante una distribuzione inesistente, il nome di Tsukamoto in Occidente, benché solo tra fans amanti di questo film che ha tutti i crismi del cult movie.

Bianco e nero (definito, in maniera condivisibile, "quasi tarkovskiano" da Paolo Mereghetti), durata limitata (solo 67 minuti), sana aria artigianale, tematiche estreme, messa in scena delirante condita da musiche assordanti, dialoghi ridotti al minimo, orrore visto come design, trama talora guidata dal nonsense e spesso antinarrativa, finale distruttivo.

Al termine si ha la sensazione di aver vissuto un incubo ma il passare delle ore, dopo la visione, riporta a galla la verità: si tratta di un'esperienza unica, sicuramente eccessiva e al contempo ricostituente.

Gli ispiratori supremi di Tsukamoto ("sono i miei padri") sono indubbiamente il David Lynch di Eraserhead e il David Cronenberg di Videodrome (e un po' tutto l'orizzonte diegetico presente in questi due autori), ma non mancano scampoli citazionisti di James Cameron (la carnalità meccanica del Terminator) e John Carpenter (le mutazioni de La cosa).
Tsukamoto narra che inizialmente la pellicola avrebbe dovuto essere pornografica, sennonché l'aver riflettuto sul fatto che l'erotismo fosse da sempre legato alla morbidezza del corpo l'avrebbe di fatto condotto a concepire una sua personale interpretazione del medesimo, rendendo le membra più solide.

Dopo l'esplosione di Tetsuo il filmmaker orientale tralascia a sorpresa il connubio carne-metallo e punta su un originale e ironico Ghostbusters imbevuto di sakè: Hiruko – Il cacciatore di fantasmi (1990). Come a sottolineare la necessità di scelte avulse dalla logica produttiva, ma mirate a realizzare ciò che più preme all'autore stesso, senza badare al successo appena ottenuto con un film del tutto diverso. Abbandonato il precedente bianco e nero rigoroso, Tsukamoto stupisce curando il colore con meticolosa delicatezza e arricchendo i dialoghi di un'ironia a volte non lontana da quella de I Goonies. Il risultato, richiamo sia al kaidan (racconti di fantasmi) che al bake-mono (film tradizionale sui fantasmi), è assai godibile nella prima parte ma scema un po' nella seconda, pur lasciando la sensazione positiva di aver dinanzi un cineasta in grado di cambiare registro senza troppa difficoltà. Oltretutto, tenendo presente che Tsukamoto è del 1960, la realizzazione di Hiruko fa intuire le potenzialità del regista nel pieno della maturità. Anche qui i debiti sono evidenti, specie nella testa con le zampe di ragno, presa di peso dagli straordinari effetti speciali realizzati da Rob Bottin per La cosa di Carpenter.

Dopo l'inattesa parentesi alla Sam Raimi, Tsukamoto riprende i temi centrali espressi in Tetsuo (oltre al protagonista Tomoroh Taguchi) e li ripropone in quello che ("mi piaceva semplicemente il titolo") non è né un remake né una continuazione del suo cult: Tetsuo II: The Body Hammer (1991). Gli assilli della città vista come Moloch tirannico, la violenza come unico mezzo di risoluzione dei conflitti e la devastazione della carne in nome della meccanica sono sempre gli stessi, ma il difetto di questo terzo lungometraggio sta nel non essere il primo.

Sostanzialmente, la novità ipercinetica e tonificante di Tetsuo rimane come sottofondo costante, ma il senso di déjà vu, l'uso del colore e le migliorie apportate conducono, paradossalmente, a giudizi meno elogiativi, pur trattandosi di qualcosa di unico.
Tsukamoto si trova ora di fronte a un bivio: insistere con pervicacia sulla strada dell'assoluto rigore autoriale e riproporre storie reiterate sulla falsariga dei due Tetsuo oppure cedere un po' del suo integralismo cyberpunk in nome della maggiore ariosità della narrazione e degli argomenti trattati.
Il filmmaker opta per la seconda via e i risultati gli daranno ragione. Non a caso passeranno ben quattro anni – il suo periodo di sosta più lungo tra un lavoro e l'altro – prima del quarto lungometraggio: Tokyo Fist (1995).

Ancora una volta il fulcro della vicenda è la carne umana e il rapporto che ognuno ha col proprio corpo. Le proboscidi e gli addentellati meccanici e metallici vengono allora soppiantati da un altro tipo di deformazione fisica: la tumefazione multipla. Tsukamoto sceglie il ring ("è l'unico posto della sicurissima Tokyo in cui il crimine rimane impunito") come punto di incontro di due amici/nemici (uno dei due protagonisti è il regista stesso, l'altro suo fratello Kohjii) e fa divenire gli scontri mezzi di metamorfosi. Pare che lo spunto per questo film gli sia stato offerto, indirettamente, proprio dal fratello, che fa il boxeur di professione.
L'individuo che viene picchiato sente dolore e coloro che subiscono i colpi si rendono conto di avere un corpo. Nel tentativo di migliorare il proprio cinema, o meglio, di inquadrarlo più dettagliatamente anche di fronte a se stesso, il cineasta di Tokyo recupera alcune ossessioni costanti (il sesso in versione manga, i grattacieli assurti a divinità scintoiste, la violenza come linguaggio) ma le avvolge con sprazzi di ironia, come per stabilire una propria identità più definita.

Tokyo Fist, di per sé, non è la sua opera più riuscita, ma, visto nell'ottica del percorso artistico, detiene un posto assai importante.

Nel 1998 esce Bullet Ballet, ulteriore atto d'amore nei confronti del cinema d'Oltreoceano (Pacifico, in tal caso): Tsukamoto si tuffa in un bianco e nero dirty e cerca di interpretare a modo suo il noir, infarcendolo del suo stile concitato e quasi sadico. La continuità d'azione caratterizzante i suoi film precedenti si stempera in una vicenda che procede a strappi, ora serenamente in attesa, ora densa ed esagitata.

La sensazione è che Tsukamoto voglia girare un lungometraggio che posi su tre/quattro momenti molto forti, lasciando al ricamo narrativo il ruolo di collegare le fasi predilette. Su tutte va ricordato un finale che è forse il più bello girato dall'autore orientale.

Un anno dopo, come un rabdomante dell'ispirazione, Tsukamoto spiazza il pubblico andando a pescare nella sua fantasia una storia ambientata a inizio Novecento, in quel Giappone pre-industriale caro soprattutto a Nagisa Oshima: Gemini (1999).

I cupi antri metropolitani si trasformano in placidi giardini verdeggianti e le case-barattolo divengono accoglienti abitazioni strutturate sulla base di shoji (le tipiche porte scorrevoli) e tatami (i graticci che tappezzano i pavimenti), in perfetto stile Meiji-mono (ovvero le pellicole ambientate nel periodo tra fine Ottocento e inizio Novecento).
La trasfigurazione carnale del protagonista si avvicina ancora una volta all'universo cronenberghiano – in particolare Inseparabili – e, in tal modo, l'iniziale decostruzione fisica dell'uomo diviene evidenza tramite la geminazione gemellare dei due antagonisti della pellicola. Gemini racchiude in sé l'anelito di narrazione contemporanea e insieme quello che appare un sincero omaggio al cinema giapponese classico, se non nei contenuti, almeno sotto alcuni aspetti formali e di messa in scena.
Il Festival del Cinema di Venezia del 2002 ha coronato l'ultima fatica di Tsukamoto, Un serpente di giugno, con l'eloquente Premio Speciale della Giuria. Il regista torna alla Tokyo odierna e disegna una parabola sulla scopofilia (sul modello del powelliano L'occhio che uccide), la solitudine, l'insoddisfazione e le regole sociali.

In quello che, insieme al destabilizzante Tetsuo, è senza dubbio il miglior film dell'autore nipponico, si mescolano finalmente in maniera compositamente equilibrata gli elementi fondanti del cinema di Tsukamoto e, rara avis, si gusta persino un pizzico di ottimismo. Il film ha una prima metà eccezionale, in bilico tra thriller e softcore, e una seconda meno incisiva ma nondimeno forte.

Se le opere precedenti alternavano i temi preferiti e ricorrenti senza un ordine ben preciso, col perenne rischio della prevalenza dell'uno piuttosto che dell'altro, in Un serpente di giugno ogni elemento costitutivo della cinematografia del cineasta trova una collocazione adatta e ben ripartita.

Possono così evincersi facilmente i richiami alla disumanizzazione recata dalla città, alla violenza come risposta ai problemi, al telefono come unico mezzo di comunicazione suscettibile di trasformarsi in estensione quasi endogena delle orecchie, alla pioggia come reazione della Natura all'innaturalezza dei rapporti umani, ai manga come fattore culturale predominante, specie in fatto di veicolo di interpretazione della sessualità, all'erotismo come voyeurismo o esigenza bestiale, al mostro generato dal sonno della ragione - incarnato dalle protuberanze esocorporali del guardone - fino alle vere e proprie metastasi del fisico.

Il cinema di Shinya Tsukamoto è tuttora in fieri e, se si guarda all'evoluzione che ha subito dagli esordi sconnessi ma guizzanti sino a oggi, si evince come le future opere dell'artista possano essere attese con incuriosita speranza cinefila. Al fine di conservare la cara indipendenza ("Kyoshi Kurosawa e Miike Takashi possono girare più film perché sono filmmaker di professione, io devo fare tutto da solo", sostiene Tsukamoto), l'autore di Tetsuo dilata i suoi film alla media di uno ogni due anni e fino a ora ha rifiutato la possibilità di volare negli Stati Uniti per un eventuale remake del suo film cult – avrebbe dovuto realizzarlo già dieci anni fa con Quentin Tarantino – a causa del timore di perdere la propria originalità.

 


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