Ricognizioni sulla 69° Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia PDF 
Ottavio Plini   

È inevitabile cominciare una panoramica sull'ultima Mostra del Cinema di Venezia partendo dalla fine, da una premiazione insolita e anche, se vogliamo, divertente. Non sarà mai ben chiaro ai profani se il Presidente di Giuria faccia tutto per conto suo, se vi sia effettivamente qualche votazione, o se non vadano, invece, sottovalutate influenze di altra natura. Fatto sta che, quando è arrivato ad annunciare le sue delibere, il quasi settuagenario Micheal Mann, paonazzo ma solenne come un buon vecchio americano alcolizzato, ha subito sentito il dovere di precisare che il Leone d'Oro non avrebbe potuto ricevere altri premi. Subito dopo, premio per la miglior recitazione a Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix per The Master di Paul Thomas Anderson e premio speciale della giuria a The Master di Paul Thomas Anderson. Che fosse questo il Leone d'Oro sognato da Mann, ma cui ha preferito accordare due premi per non risultare troppo nazionalista nelle preferenze? Un istante dopo, tutti trattengono il fiato per il Leone d'Argento, che risulta in un primo momento Paradise: Faith di Ulrich Seidl, commedia austriaca anticattolica e antiratzingeriana che, piuttosto povera di stile, si fregia di maniere hainekeniane nella raffigurazione del nevrotico personaggio femminile. A questo punto si alza dalla giura Letizia Casta annunciando che “there is been a terrible mistake”, e in sala stampa non si capisce più niente. Mentre i comunicati ufficiali affidano così il Leone d'Argento a The Master, sancendo uno scambio di premi come mai si era verificato prima, le biglietterie e gli info point annunciano la proiezione di Paradise: Faith come Leone d'Argento. Neanche ce ne accorgiamo, e intanto arriva il Leone d'Oro.

A conti fatti, gli italiani restano nuovamente a secco, e non è una novità. Quel che semmai desta maggior perplessità è l'ennesima testimonianza di fede che la Mostra riserva all'Oriente, anche dopo l'addio di Müller, spesso accusato di essere troppo filo-orientale. Perchè se a quei tempi Ang Lee era capace di vincere due anni di seguito, quest'anno il Leone d'Oro va a Pietà di Kim Ki-duk, film truculento e melodrammatico che in nulla sembra disattendere il progressivo raffreddamento dell'ispirazione del maestro sudcoreano. Ma che maestro rimane, pur forse un po' bruciato (simpatico quando si mette a cantare per la gioia dietro al Mann paonazzo di cui sopra), confermando, nella sua pellicola, una tendenza a presentare un Oriente permeato di concetti filosofico-spirituali vagamente occidentali (o procedendo alla loro destrutturazione): basti, su tutto, pensare alla locandina, che ambiziosamente cita l'omonimo capolavoro di Michelangelo. Un diverso piano della mente viene esplorato in The Master (con un più patinato e senz'altro soave stile hollywoodiano), sarebbe a dire il mondo dei culti new age: prendendo spunto da Scientology e dal suo bizzarro fondatore, il film visualizza, pur in un tessuto narrativo classico, una serie di suggestivi fenomeni come gli esperimenti di regressione alla fase prenatale, gli esercizi di controllo delle reazioni mentali, gli innumerevoli giochi psicologici instaurati tra maestro e discepolo, e la follia che a volte emerge di pari passo con l'evoluzione iniziatica, secondo il principio per cui la mente si costruisce su più livelli, spesso nascosti. Vari gradini sotto si colloca, a giudizio di chi scrive, Paradise: Faith, che sembra suggerire, senza approfondire, il fenomeno, ugualmente moderno e postmoderno, del dio personale (la protagonista, cattolica fervente, appartiene a un parodistico gruppo di cattolicizzazione dell'Austria, ma non entra mai in contatto con sacerdoti ordinati), ma che appare soprattutto una provocazione contro le gerarchie che parlano di nuova evangelizzazione. Divertono certi sprazzi di grottesco, ma il disegno è inconsistente. Viene in mente un recentemente compianto protagonista di Venezia, l'inarrivabile romanziere americano Gore Vidal, che nella sua autobiografia racconta di quando fu Presidente della Giura e gli chiesero quale fosse stata la sua più grande soddisfazione, e di come lui abbia risposto: l'impedire a Frank Capra di fare un film contro il comunismo e interrompergli così la carriera. Quando però il cinema diventa un rally di strombazzamenti ideologici, politici o religiosi che siano, sembra perdere la sua meraviglia artistica. La dimensione sociale, da cui Carmelo Bene ambiva liberarsi per approdare a quell'ascolto, quell'attesa, dove le nostre percezioni sono rivoluzionate grazie all’arte ma che è precluso alla maggior parte del cinema standardizzato, si ripresenta, al contrario, in molti degli eventi più attesi della Mostra.

Più ambizioso di tutti, alla ricerca dello shock, è il nostro Bellocchio, che, con la sua rievocazione, in Bella addormentata, del caso Englaro, risulta troppo nostrano per essere compreso appieno dagli stranieri che non fossero a conoscenza dei retroscena, tra cui le reiterate citazioni di interventi di Berlusconi (con la sua famigerata uscita secondo cui la Englaro era ancora una possibile procreatrice) e di altri politici. In virtù di questi intervalli quasi documentaristici, sono i personaggi di finzione a fare in qualche modo da sfondo (persino una splendida Huppert e un perfetto Servillo), benchè il tema dell'eutanasia ambisca chiaramente a risuonare universale in tutta la sua carica drammatica. Che si approvi o meno il suo approccio magniloquente, vanno apprezzati certi sprazzi di grottesco che costituiscono una firma del suo cinema: irresistibile lo psichiatra che elargisce sedativi ai politici in crisi di coscienza (costante di molti film italiani contemporanei con il gusto della farsa sociale, tra cui il promettente esordio in mostra di Lo Cascio con La città ideale, è la gag dell'abuso di tranquillanti da parte del potente di turno: segno dei tempi e dell'attuale stato di coscienza?). Dal fronte americano, si fa vivo invece il 75enne Redford con The Company You Keep, pomposo action-movie che denuncia il disinteresse delle nuove generazioni verso le battaglie del Sessantotto (medita sconsolato il personaggio di un vecchio accademico: “ne parlo ai miei studenti, loro si entusiasmano, tornano a casa, aggiornano il loro stato facebook, e finisce lì”). L'evoluzione (o involuzione) post-sessantottina, questa volta dal punto di vista francese, è pretesto anche per il film (dichiaratamente) autobiografico di Assayas, Après mai (tra l'altro premio alla sceneggiatura), in cui il regista si è circondato di suggestivi giovani non professionisti per rievocare le atmosfere del periodo. Ponendosi in continuità con il filone dei vecchi nostalgici quali il Bertolucci di The Dreamers e il Garrell di Un Été Brûlant (in mostra l'anno scorso), Assayas specifica però di sentirsi rispetto a loro di una generazione diversa, che ha subìto anziché aver plasmato il Sessantotto. Va anche notato che l'estetizzazione del Sessantotto è resa più percorribile secondo il consolidato luogo comune che si trattasse di un movimento utopistico, mentre la verità storica è che i suoi esponenti politici, ispirandosi al pragmatismo marxista, miravano a ritorni concreti. L'approccio del raffinato realizateur francese è meno pretenzioso rispetto agli altri elementi “socialmente impegnati” della Mostra, prediligendo egli un approccio onestamente intimista e non scevro da brillanti, pur di lunga data, riflessioni estetiche (proprio sul rapporto tra rivoluzione sociale e quella del linguaggio estetico-artistico: se quest'ultima sia strumento di rottura o appannaggio di un'elite e così via dicendo); ma la sua è soprattutto un'operazione di nostalgia e di confronto con i fantasmi del passato, perchè, specificano le note al film, la giovane amata dal protagonista muore per overdose, mentre sullo schermo viene visionariamene aggredita e annientata da una sorta di vampata di fuoco purificatore. Viene ancora in mente il già citato Garrell, geniale videoartista profondamente scosso, sul finire degli anni Ottanta, dalla misteriosa morte della compagna, cantante e artista Nico, la cui vicenda ritorna nel suo bellissimo Innocenza selvaggia. Ma è proprio su questo punto che Assayas riserva una delle riflessioni più interessanti degli autori in Mostra, in un'intervista concessa durante un evento esclusivo: “L'arte nasce forse dalla constatazione di un'assenza, di qualcosa che non c'è o c'è stato o ci potrebbe essere, spingendo a indagare sulla linea tra visibile e invisibile, sfondandola ove possibile”. Ha scritto Paolo Bertetto: “Le interpretazioni […] in chiave esoterica costituiscono una penetrazione nel nascosto e nel segreto, che riarticola ancora la relazione tra visibile e invisibile dell’immagine filmica e ne indica una ulteriore forza celata”.

La disputa tra un cinema del linguaggio pubblico e uno del paesaggio interiore continua così anche in questi primi decenni del Duemila, come hanno dimostrato lo sconcerto e i contrasti provocati dall'opera ultima di Terrence Malick. Viene in mente quel periodo della musica classica, nel cuore dell'Ottocento, durante il quale si dibatteva se l'arte dei suoni andasse concepita come libera e ineffabile espressione di eco interiori, o se dovesse poggiarsi su un programma, se dovesse spiegare a parole quel che restava indistinto e nebuloso nel labirinto delle armonie. Deleuze fa risalire più o meno a Liszt il primo tentativo di far esplodere il concetto di paesaggio interiore (l’Inneres Program mahleriano) dentro l'architettura della musica a programma. Tentativi di svincolare il cinema dalle strutture del linguaggio narrativo per renderlo magia e musica delle immagini in movimento innervano anche questa 69° edizione del festival (festival che accolse, lo ricordiamo, alcune delle opere più estreme di sempre a questo riguardo, da L'anno scorso a Marienbad di Resnais a Nostra Signora dei Turchi di Bene fino al recente Inland Empire). E tali restano, a parere di chi scrive, i momenti più interessanti. Menzione speciale sembra allora meritare La cinquième saison del belga Peter Brosens e dell’americana Jessica Woodworth, a metà strada tra il senso pittorico di un Greenaway e un panteismo della natura tutto herzoghiano, dove l'alchimia tra immagini, musiche e sguardi prevale finalmente sull'eloquenza mistificatrice della parola: vi si raffigura una misteriosa terra di mezzo dove l'inverno diviene eterno, e un maleficio che rende la terra improduttiva è presagio della fine dell'umanità dominatrice che conosciamo, che siamo. Ma, come già accennato, vorremmo forse più che tutto spezzare una lancia a favore di questo To the Wonder di Malick, da non pochi fischiato e vituperato, e che ha condotto alle estreme conseguenze quella sua personale concezione del cinema già trascinata verso l'esasperazione in The Tree of Life: rinunciando egli a qualsiasi normale modalità di messa in scena, costruisce una sinfonia di monologhi interiori e labirinti spazio-temporali. Gli è stata rimproverata l'estetica da videoclip, ma pare una critica ignorante se può dirsi videoclip la sua maestria nello sviscerare le più sublimi melodie di Wagner e Ciajkovskij intrecciandovi un senso del paesaggio e della dinamicità delle immagini a dir poco monumentale. Può forse raffreddare l'empatia il suo definitivo abbandono a un'ossessione personale per tematiche provvidenzialistiche e per una concezione della vita quale dominio dello spirito: ma qui siamo immersi nel suo paesaggio interiore (non solo suo, si intende, ma quello della globalità di estasi mistico-artistiche che risuonano con la sua), un paesaggio interiore umano tradotto da un quasi settuagenario che non chiede “appuntamenti all'oggi, al quotidiano”, per dirla con Carmelo Bene, ma che spinge semplicemente a domandarsi perchè solo ora abbia cominciato a fare film ogni due anni.

Sul versante femminile, potrebbe essere presa in considerazione Sarah Polley, che affronta con The Stories We Tell il mockumentary, portando ancor più all'estremo un genere certamente di moda tra i filmakers di nuova generazione: giacchè sembra raccontare la storia della sua famiglia, a partire dalla madre defunta fino alla scoperta del vero padre, il tutto pare credibilissimo finchè non appare lei stessa che dirige gli attori. Esibisce così un coraggio nel mettersi in gioco e una concezione ludica del cinema (è forse il film più originale della Mostra) che, sebbene disturbato da una prolissa componente narcisistica, fa pensare a chi scrive che l'autrice sia personaggio da tenere d'occhio. È spiacevole invece vedere una ex allieva di Dogma come Susanne Bier mettersi a girare cartoline di Sorrento con Pierce Brosnan scontato seduttore. In Love Is All You Need pretende di trattare con leggerezza temi importanti quali la malattia, la morte e la famiglia, ma tutto risulta spesso arido o demenziale. Per finire vorremmo spendere alcune parole su Valeria Sarmiento che, vedova di Raul Ruiz, si è messa in testa di completare l'opera incompiuta del marito in virtù della di lui morte, improvvisamente sopraggiunta l'estate scorsa durante la preparazione del film portoghese Linhas de Wellington, a neanche settant'anni (sorte ben diversa rispetto a quella che sta toccando al 104enne portoghese de Oliveira, ormai un caso umano, anch’egli in mostra con Gebo e la sua ombra, ma che si limita ormai a star seduto lasciando esibirsi attori in lunghi monologhi a inquadratura fissa). L'ultimo capolavoro del Nostro Raul era stato un filmone storico come I misteri di Lisbona, da alcuni proclamato come il suo personale Barry Lindon; e in quest'incompiuto ci troviamo ancora una volta in Portogallo, per una ricostruzione della guerra tra Bonaparte e Wellington. Cosa avesse in mente originariamente il maestro surrealista franco-cileno non potremo mai saperlo, ma il modo in cui sua moglie, benchè se ne voglia qui applaudire la nobiltà d'intenti, ha messo insieme i pezzi rimanenti, risulta piuttosto imbarazzante. Concordiamo però sul fatto che fosse doveroso ricordare Ruiz come quel vaneggiatore di scorribande surrealiste, di “viaggi clandestini”, di “storie immortali” - tanto da essere talora accostato all’ultimo Welles, esteta sognatore più che nella sua prima fase hollywoodiana (dell’ultimo Welles rammentiamo che è stata presentata in mostra una copia restaurata del suo meraviglioso e rarissimo Falstaff, presto in commercio) -, uno dei maestri del cinema più squisiti, e anche, proprio come Welles, più misteriosi, assurdi e meno inseriti nel sistema distributivo. Il nuovo direttore Alberto Barbera ha voluto onorarlo inserendo la sua opera incompiuta (e purtroppo impersonale) in concorso, ma cinematograficamente poco ci sarebbe di meglio che un recupero dei suoi capolavori maggiori e spesso sottodistribuiti, al punto che riteniamo degna conclusione augurarsi presto il momento di una retrospettiva.

 


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