Festival di Cannes, 64ª edizione PDF 
Aldo Spiniello   

Per rintracciare un minimo comune denominatore di questa 64ª edizione del Festival di Cannes si potrebbe far riferimento alla chiara identità francese della kermesse, peraltro sempre molto evidente, ma quest’anno più dichiarata che mai, quasi a voler ribadire con forza l’importanza istituzionale della Palma d’oro. Un festival sotto il segno della Francia, dunque, sin dal film di apertura, Midnight in Paris di Woody Allen, omaggio tenero e appassionato alla Parigi degli anni Venti e ai suoi miti. Allen rimaterializza, nostalgicamente, tutto un mondo di scrittori e artisti, da Hemingway a Francis Scott Fitzgerald, da Picasso a Dalì, da Buñuel a Man Ray. Ma la fascinazione del viaggio nel passato e la constatazione dell’impossibilità di un ritorno a tempi migliori sono solo un pretesto, ovviamente. La sfida di Allen, stavolta, è di uscire dal chiuso dei teoremi in cui sembrava costretto negli ultimi film, per ritrovare una felicità d’ispirazione nella (sempre più disarmante) semplicità del gesto. E un accordo intimo con Owen Wilson, straordinario protagonista, corpo comico e infinitamente nostalgico, perfetto, probabilmente, per la vena profonda del cinema di Allen, sempre in cerca di un’altra possibilità d’amore.

All’insegna della Francia, ovviamente, anche il film di chiusura: Les bien-aimés di Christophe Honoré, che rispolvera, ancora una volta, la formula del musical, o meglio del film cantato, per raccontare una storia di amori, solitudini, rimpianti, nostalgie e drammi. Honoré vola alto, abbracciando quasi quarant’anni di vicende e tragedie private e pubbliche (l’armata russa a Praga nel ’68, l’11 settembre), attraversa gli spazi (da Parigi a Lione, dal Canada a Londra), ma rimane sostanzialmente fedele a uno spirito francese, a uno sguardo truffautiano di seduzioni femminili e perdite irreparabili, a un’idea di cinema nouvelle vague, che apre continuamente alla vita i set profondamente artificiali del genere. Tra l’inizio e la fine, tanta Francia. Quattro film in concorso: Pater di Alain Cavalier, Polisse di Maïwenn, L’Apollonide di Bertrand Bonello e l’attesissimo The Artist di Michel Hazanavicius, che dopo il successo di OSS 117 ritrova Jean Dujardin, star della serie TV Un gars, une fille. Lucidissimo omaggio al muto, perfettamente chiuso nella sua splendida superficie d’antan, The Artist sembra sorvolare un’intera epoca d’oro degli Studios hollywoodiani, da È nata una stella di Cukor, Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen, Viale del tramonto di Billy Wilder. Quasi un’opera filologica, divertita e commossa, che non nasconde una certa furbizia, ma che, pur nella sua dichiarata vocazione cinefila, riesce a trovare una vena di sincerità, grazie anche ai suoi protagonisti, Jean Dujardin, premiato (forse non tanto a sorpresa) con la Palma per il miglior attore, e Bérénice Bejo. Quasi agli antipodi rispetto alla confezione seducente e patinata di The Artist, Polisse, terzo film da regista dell’attrice franco algerina Maïwenn Le Besco è incentrato sulle vicende e i casi della BPM, la Brigade de Protection des Mineurs di Parigi. Quasi la riduzione cinematografica di un’infinita serie TV: brandelli di storie tratteggiate superficialmente, spesso appena accennate, ma raccontate con una sincerità e una sensibilità a tratti disarmanti, che riscattano tutte quelle trovate un po’ convenzionali o modaiole, l’ingenuità di alcune scene che sembrano buttate via, in perfetto stile TV movie. E il film trova un’intensità sorprendente quando la forma sporca di uno stile semidocumentaristico riesce a incrociare la profondità degli interpreti, le straordinarie Karin Viard e Marina Foïs, Emmanuelle Bercot (coautrice della sceneggiatura) e l’eccezionale Joeystarr, leader della rap band francese NTM, che s’impone su tutti con la sua fisicità dirompente e la sua espressività segnata.

Diverso il discorso per L’Apollonide di Bertrand Bonello, il controverso regista di Le Pornographe e Tiresia. Rinchiudendosi in casa chiusa parigina, all’alba del XX secolo, Bonello vuole raccontare un mondo in progressiva dissoluzione, come i corpi e i sogni delle sue muse (Noémie Lvovky, Hafsia Herzi, Jasmine Trinca, Alice Barnole), cercando di preservare gli ultimi segni di vita e rischiando delle audaci (e a volte improbabili) incursioni nel presente (la musica, il finale). Film di una bellezza dichiarata, denso di richiami pittorici all’impressionismo francese, frutto di un lavoro regia controllatissimo. Eppur L’Apollonide non riesce mai a liberarsi e liberarci dall’impressione di un esercizio di stile claustrofobico, asfissiante come il bordello che fa da teatro (immobile) alla vicenda. Ma la fascinazione dell’immaginario cinematografico si avverte anche aldilà dei registi d’Oltralpe. È il caso, ad esempio, di Le Havre, l’ultimo film di Aki Kaurismäki, che a quasi vent’anni di distanza da Vita da Boheme, ne riprende uno dei personaggi principali, Marcel Marx (ancora una volta interpretato da André Wilms), e s’immerge nell’atmosfera piovosa della città portuale, recuperando tutto un mondo alla Marcel Carné e alla Jean Gabin. Giocando sul doppio registro, politico e cinefilo, della sua ispirazione, Kaurismäki sembra ritrovare il piglio dei suoi momenti migliori, in cui riesce a costruire l’immagine e, attraverso essa, la carne di un mondo assolutamente personale. E, soprattutto, disegna personaggi unici, indolenti e umanissimi, solidali perchè esiliati, vividi nonostante (o grazie) alla caratterizzazione, sanguigni e reali malgrado l’antinaturalismo degli interpreti, magnificamente complici. Di un animo profondamente francese, sous le nom de Melville, sembra vivere anche Habemus Papam di Nanni Moretti, a conti fatti uno dei migliori film del concorso. Tra vita e finzione, realtà e sogno, Moretti arriva a tracciare una lucidissima parabola del potere, un doppio movimento di salita e discesa, e compie una lucida e disperata dichiarazione di resa del (proprio) cinema di fronte all’ingestibile mistero della contemporaneità. Il Papa che rinuncia alla sua nomina è Moretti stesso, che, in un colpo solo, sembra prendere le distanze dalla sua figura di maestro riconosciuto, di guida intellettuale, cinematografica e politica.

Ancora legato alla Francia, innanzitutto produttivamente, è La source des femmes di Radu Mihaileanu, una sorta di favola ‘femminista’ sull’emancipazione del mondo islamico, che, sebbene si avvalga di un convincente cast di attrici (Hafsia Herzi, Leïla Bekhti e Hiam Abbas), conferma ancora una volta il respiro corto del cinema del regista di origini rumene, sempre superficiale e ai limiti del divulgativo. Per il resto, il concorso ha presentato la solita parata di grandi nomi. C’era attesa per This Must Be the Place, sortita internazionale di Paolo Sorrentino, storia di una rock star in avanzato stato di decomposizione sentimentale (interpretata da uno Sean Penn mimeticamente irritante). Ma ancora una volta, il regista partenopeo mostra la sua inadeguatezza, non riuscendo a nutrire di sostanza, di carne e sangue la tessitura retorica del suo stile esornativo e mai necessario, incapace di liberarsi del suo sovraccarico di movimenti e dolly, che aspirano al simbolismo, ma ricadono nello sterile esercizio di bravura. Epperò, va detto, quando lo sguardo di Sorrentino si confronta con l’imponenza fisica e immaginaria del paesaggio americano, forse per la prima volta nella sua carriera, mostra uno smarrimento e un timore reverenziale che sfiorano un’umanità che sembrava irrimediabilmente perduta, riuscendo a dar vita a scena ai limiti della commozione. Speculare, per certi versi, a This Must Be the Place, per come si approccia all’immaginario cinematografico americano, è Drive, l’ultimo film di un regista ormai di culto, il danese Nicolas Winding Refn. E anche qui si avverta una sorta di spiazzamento, un doppio movimento. Da un lato (soprattutto nella parte iniziale e nel finale) uno sguardo che sembra per un attimo riportare a galla le atmosfere notturne e romantiche del grande cinema di genere americano. E poi, d’un tratto, torna prepotentemente uno stile ingombrante, che con i suoi eccessi, il suo sovraccarico cromatico e sonoro, imprigiona la verità dei personaggi e degli interpreti (Ryan Gosling, Carey Mulligan, Ron Perlman), modifica di segno la trasparenza dei modelli, per mettere in scena un estenuante gioco al massacro con il cinema visto e amato. Il premio per la miglior regia testimonia l’innegabile qualità tecnica di Refn, ma la padronanza del mezzo rimane strozzata in quest’incertezza tra il rispetto e la trasgressione dei generi, tra la continenza e l’eccesso, la tenerezza e la crudeltà.

Sempre per rimanere nella dimensione dei registi di culto, non si può non accennare all’altro gran danese, Lars Von Trier, che con Melancholia profetizza la sua fine del mondo, apocalisse che piomba dall’alto del cosmo su un privatissimo caso clinico di depressione, quello di Justine (Kirsten Dunst, premiata, un po’ a sorpresa, come miglior attrice). Qui probabilmente Von Trier rifugge dagli eccessi morbosi e solo sulla carta scandalistici di Antichrist, sembra volgersi al dramma da camera di un gruppo di famiglia in un matrimonio, ma non riesce a liberarsi dalle francamente insopportabili e ridicole ossessioni millenaristiche che da sempre ammorbano il suo cinema. Lo studio delle dinamiche e delle nevrosi di una famiglia borghese, potenzialmente interessante, si trasforma, ancora una volta, in una mattanza che non risparmia nessuno, confermando il sostanziale odio del regista per il mondo che racconta. Alla fine, l’unico che sembra davvero in salvo, dal set e dalla sguardo di Von Trier, è Kiefer Sutherland, alieno inafferrabile che rifiuta di farsi uccidere da una macchina cinema criminale.

Se La piel que habito di Pedro Almodóvar poco aggiunge al cinema del regista spagnolo, se non nel mettere in gioco un’estrema riflessione sulla mutazione del corpo, che evoca il desiderio di una mutazione del cinema, molto più sorprendente è Le gamin au vélo dei fratelli Dardenne, che, dopo le due Palme d’oro ottenute in passato, portano a casa anche il Premio della giuria. Se al centro della vicenda c’è sempre la famiglia, il rapporto padre e figlio, legame spezzato, da ricomporre solo in un rinnovato abbraccio con la madre (come già ne La promesse), se c’è sempre quell’attenzione spasmodica per il corpo degli attori, pedinati e seguiti nelle loro esplosioni di fisicità, sembra passare molta più aria tra questi corpi e la macchina da presa. Uno spazio di libertà in cui soffiano insolite tenerezze, lampi di serenità e pace, rarissimi. E, inoltre, si svela appieno un impensabile cuore segreto del cinema di Dardenne: una specie di eco nouvelle vague, che fa del giovanissimo Cyril (Thomas Doret) una sorta di miston truffautiano, un piccolo Antoine Doinel impegnato a fare i quattrocento colpi. Quasi lo specchio adolescente dell’altro grande alter ego dei Dardenne, Jérémie Renier, ex ragazzo terribile ora padre inaffidabile, sempre più simile a un contemporaneo Jean-Pierre Leaud. Ecco: le sorprese sembrano venire proprio da quei registi da sempre più identificabili, nello stile e nei toni. È il caso di Takashi Miike che, nel metter in scena Ichimei (Harakiri: Death of a Samurai), remake in 3D del capolavoro di Masaki Kobayashi, compie ancora una volta la sua solita operazione di decodificazione, un’interpretazione e uno scardinamento dei codici, di quanto d’illeggibile e inumano vi è in essi, perché costituzionalmente e istituzionalmente votati alla compressione della libertà e all’indifferenza dei sentimenti. Ma al tempo stesso si mantiene su un livello di compostezza ed eleganza figurativa finora mai raggiunto, rinuncia a far esplodere tutta la tensione latente nella vicenda del vecchio ronin Hanshiro, per condensarla all’interno, trattenerla in un melodramma innervato da dinamiche puramente interiori. Paradossalmente Miike gira in 3D il suo film meno spettacolare, meno votato alle coreografie esplosive dell’azione e all’impennate iconoclaste ed eretiche, tipiche del suo cinema. E proprio qui, in questa scelta, riconosciamo, allora, l’ennesima provocazione critica dell’instancabile filmmaker giapponese: il 3D non serve a nulla se rimane semplicemente sulla superficie delle immagini e non nella loro struttura intima, profonda, emotiva.

Anche l’altro film giapponese in concorso, Hanezu, coglie nel segno e conferma la vibrazione profonda, il cuore melodrammatico, vivo, rosso (appunto) dell’apparente atemporalità del cinema di Naomi Kawase: l’affanno sempre uguale, terribile e silenzioso dei sentimenti è come il magma che riposa sotto la coltre di neve. E sorprende, infine, Once Upon a Time in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan, il regista turco, presenza abituale al Festival di Cannes, già vincitore del Premio per la regia nel 2008 con Le tre scimmie e del Grand Prix nel 2003 con Uzak. Qui ottiene un altro Premio della giuria, ex aequo con i Dardenne, con un film dai ritmi lenti e compassati, solo apparentemente bloccato nei suoi giri a vuoto. Lo sguardo di Ceylan sembra inquadrare qualcosa, seguire una traccia, un’impronta, ma in realtà è rivolto a tutt’altro, a un sottotesto di rapporti, riferimenti, segni, sentimenti, emozioni, che raccontano di verità nascoste, colpe, responsabilità, trasformazioni, individuali e collettive. Il cinema, allora, radicalizza la sua evanescente sostanza di immagine che parla oltre il racconto, di folgorazione improvvisa che si staglia nella finta oscurità dell’indicibile e dell’invisibile.

Sono proprio i film della Kawase e di Ceylan ad apparire come la miglior introduzione possibile al vero evento di questo Festival di Cannes, The Tree of Life di Terrence Malick, Palma d’oro già annunciata alla vigilia, punto di non ritorno di un percorso sempre più solitario, abitato da ossessioni, riflessioni e desideri assolutamente privati. Malick parla con Dio, si direbbe, o forse con sé stesso, con ciò che è sempre stato il suo cinema, il suo pensiero sospeso tra i due estremi della vita, la grazia e la natura. Parla della nascita dell’umanità, muovendosi sinuoso, come la steadycam di Emmanuel Lubezki tra le glorie della natura e le glorie dell’uomo, costruendo impalcature visive che sfiorano gli estremi della video-arte e che si innestano su altre impalcature, concettuali. Ma aldilà di tutto, aldilà delle possibili riflessioni e ricostruzioni, di ogni lavoro di interpretazione dei simboli e di più legittimi rifiuti, Malick riesce a tessere, come forse nessun altro, una trama di rapporti e sentimenti (familiari, universali?) minimi eppur complessi senza narrarli, solo per accenni, folgorazioni, illuminazioni, silenzi. Rinunciando quasi del tutto a ogni più elementare e canonico raccordo di montaggio, Malick ci restituisce la netta sensazione che il cinema sia sempre costruito su una mancanza, su una perdita fondamentale. Una costruzione fragilissima innalzata sull’impossibilità di illuminare il non visibile, di inquadrare tutto il mondo destinato al fuoricampo. Cinema del futuro o forse cinema già passato e quindi eterno, immagine primitiva che afferma, autarchicamente, la propria precaria, instabile autosufficienza.

Ma, mantenendo (necessariamente) in sospeso il discorso su Malick, ed escludendo per certi versi Moretti e Miike,  questo 64ª Festival di Cannes ha rischiato e ha mostrato le sue punte più avanzate di riflessione e ricerca soprattutto nelle sezioni collaterali. In particolare in “Un certain regard”, a cominciare da Arirang, autoconfessione, disperata e compiaciuta al tempo stesso, di Kim Ki-duk in pieno blocco creativo. Era dal 2008 che l’amato regista coreano non girava nulla. Tre anni di silenzio preoccupanti per i suoi ritmi. Ed eccolo tornare, mettersi in gioco con una videocamera digitale, ripercorrere il suo cinema, costruire il suo spazio di solitudine, l’eremo privato, cantare il suo atto di dolore e cercare la sua ascesi, sparare al suo passato, uccidersi per poi rinascere nello shoot di un’ultima ripresa ‘necessaria’. È talmente denso di teoria e passione Arirang da far passare in secondo piano qualsiasi minacciosa sovrastruttura, qualsiasi eccesso di artificio. Ovviamente Kim Ki-duk gioca col suo cinema, ma gioca comunque sempre sul filo del rasoio, perché davvero ha il coraggio di parlare con la sua ombra, cioè di mettere sul piatto della bilancia l’insanabile aporia tra la carne e l’immagine, per trovarne il possibile punto di contatto, quel momento di congiunzione che permetta ancora al cinema di morire e rinascere grondando sangue. Davvero uno dei film definitivi di questa Cannes 64. E punta estrema di una sezione che trova i suoi momenti più interessanti nel cinema macumba di Juliana Rojas e Marco Dutra (Trabalhar Cansa), nell’anacronismo rivoluzionario di Robert Guédiguian, capace ancora di mettere il grande Jean-Pierre Darroussin di fronte a domande sulla politica, l’impegno, la coerenza, che sembrano lontane secoli, di farci amare una città, una generazione e un mondo col solo aroma di un pastis e le note di una canzone (Les neiges du Kilimandjaro). E poi l’altro anacronismo, quello dell’animazione di Eric Khoo che rende il suo omaggio a Toshihiro Tatsumi, il grande maestro dei gekiga, i manga per adulti. O ancora, la disperata solitudine del protagonista di Oslo, 31. August di Joachim Trier, trentasettenne regista norvegese che racconta il gorgo muto dei sogni di una generazione, sfiorando la densità drop out del cinema di Van Sant e la geometria dei sentimenti di Rohmer. E, naturalmente, il cinema sempre uguale di Hong Sang-soo, che in The Day He Arrives rimette di nuovo in circolo i suoi personaggi sospesi in un tempo immobile. Un’eterna ronde, che ci rinchiude in unico, indistinto film labirinto, nonostante l’apparenza del suo divagare errante, delle sue traiettorie nouvelle vague, fatte di incontri casuali alla Truffaut, di magiche fughe amorose. Una libertà narrativa assoluta, gioiosa, che si ripiega su se stessa, film dopo film, in un’ineludibile impasse esistenziale, che ha il sapore di una malinconia sottilmente disperata. 

Ecco il quadro di un festival di gran livello, forse ancora non del tutto capace di spogliarsi delle sue logiche istituzionali, per gettarsi a capofitto nei sentieri mai domi del cinema contemporaneo, come la Venezia di Müller, ma comunque ricco di gioielli impagabili. Come Restless di Gus Van Sant, film di apertura di “Un certain regard”, ennesima delicata e dolente incursione in The Fairest of the Seasons, la più bella delle stagioni, l’adolescenza, con tutto il suo carico di meraviglie, giochi, speranze e innamoramenti, ma anche con le sue terribili e dolorose scoperte, la morte, la perdita, la solitudine. Due giovani attori straordinari, Henry Hopper (figlio del grande e compianto Dennis) e Mia Wasikowska, la dolcezza e la tristezza dell’autunno, i fantasmi di un tempo andato, indomabile, e la semplicità cristallina di un cinema che sfiora la fine per obbligarci ad andare avanti. O come Wu xia, fuori concorso, altro volo del cinema meraviglioso e lieve, ma al tempo stesso denso e viscerale di Peter Ho-sun Chan, che attraversa l’intera storia di un genere, da The One-Armed Swordsman di Chang Cheh a oggi, passando per King Hu e Jackie Chan, per raccontarne la sostanziale e misteriosa inafferrabilità, la sua essenza mutevole di materia e spirito, concretezza e levità, magia e trucco. Seguendo le evoluzioni di Donnie Yen e lo sguardo di Takeshi Kaneshiro, Peter Chan sfiora il segreto stesso del cinema, che si mostra in tutta la sua gloria, pur svelando il suo artificio, il suo inganno necessario a ricreare la precaria immagine del mondo.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.