I giorni del cielo PDF 
Nando Dessena   

Se si vuole partire con un ossimoro si può affermare che Terrence Malick è sempre stato un alfiere del cinema mainstream indipendente. Affrancatosi dal sistema industriale hollywoodiano è riuscito a piegare i codici del classicismo sotto il giogo di quella poetica della nostalgia che dalla fine degli anni Sessanta ci ha raccontato sul grande schermo il crollo inesorabile del sogno americano. In quegli anni, come a voler dare una sorta di risposta alla politique des auteurs d’oltreoceano, il cinema a stelle e striscie ammicca alle avanguardie e alla nouvelle vague affrontando nuove tematiche e portando sugli schermi una ventata di freschezza. La rabbia giovane (1973), primo lungometraggio di  Malick, accanto a perle quali Harold e Maude (1971) di Hal Ashby, Il re dei giardini di Marvin (1971) di Bob Rafelson, Mean Streets (1972) di Martin Scorsese, Chinatown (1974) di Roman Polanski, solo per citarne alcuni (ma l’elenco sarebbe interminabile ...), si confronta con la violenza, l’inquietudine, la disillusione, in maniera critica e con una crudezza inusitata. All’interno di questo clima i produttori cinematografici, soprattutto per cercare di arginare la crisi generata dal morbo televisivo che ruba inesorabilmente spettatori alle sale, vanno alla riscoperta dei blockbusters senza trascurare però i mutamenti avvenuti nella percezione spettatoriale in seguito alle innovazioni introdotte  dal cinema europeo. Viene concessa così ad  alcuni giovani registi la possibilità di dare il via ad un vero e proprio rinnovamento stilistico: dalla cosiddetta generazione dei movie brats, che include autori nati intorno agli anni Quaranta come Peter Bodganovich, Steven Spielberg, George Lucas, Martin Scorsese, Bob Rafaelson, Francis Ford Coppola e lo stesso Malick, fiorisce quel movimento di rinascita del cinema mainstream statunitense che prenderà appunto il nome di New Hollywood.

Le influenze estetiche di questa nuova tendenza sono le più disparate, si raccolgono e si rielaborano i codici della Hollywood classica combinandoli con l’impegno sociale del neorealismo italiano (si pensi alle pellicole di Scorsese) e ancora con la libertà espressiva del cinema underground di Maya Deren, Stan Brakhage, Andy Warhol e la visionarietà dei blasonati autori europei degli anni Sessanta come Fellini, Antonioni e Bergman. A questo coacervo di stili e proposte fa però da contraltare la crisi del cinema come istituzione, che esce sconfitto dalla lotta con il mezzo televisivo. Si parla di morte del cinema (e di elaborazione del lutto), che, dopo aver conosciuto varie crisi congiunturali nel corso della sua storia, entra in una crisi che è strutturale, che riguarda cioè il suo assetto complessivo. Il cinema, dunque, si de-istituzionalizza perdendo la sua capacità di aggregazione sociale a favore della disgregazione produttiva e distributiva tipica della fruizione televisiva e dei nascenti cineclub, ed acquistano maggiore importanza e identità i film in quanto tali rispetto al prodotto medio articolato su più livelli (film di serie A, B movies, ecc ...). Di contro, la teoria cinematografica sostiene un periodo di istituzionalizzazione e si confronta direttamente con il background politico-culturale dell’epoca: il superamento della tradizione che la modernità attua è vissuto come un ripensamento talvolta ironico, ludico o nostalgico del passato spingendo anche il cinema verso un nuovo rapporto con la storia tipico delle speculazioni del post-moderno (1). 

Come fa notare Franco La Polla, la politica della New Hollywood è parificabile a quella degli autori della nouvelle vague francese, e non unicamente dal punto di vista del ricambio generazionale, ma anche con un incremento, verificabile in entrambi i casi, delle produzioni indipendenti, realizzate con piccoli budget, e una continua ricerca di stilemi che rimandino al quotidiano e al documentarismo. Inoltre è riscontrabile una pervicace attenzione alla politica e alla situazione sociale e una sorta di revisione ideologica dei generi classici (2). Il termine indipendente non deve perciò trarre in inganno o generare confusione: le produzioni della nuova Hollywood non sono svincolate dal mercato come le opere underground o sperimentali; il vantaggio, per così dire, sta nel fatto che pellicole girate come produzioni indipendenti, dunque a basso costo, sono investimenti sicuri per le società distributrici (Easy Rider, realizzato con appena quattrocentomila dollari, consentì alla distribuzione di guadagnarne ben 19 milioni!)

Per un discorso meramente economico, in seguito, molti dei nuovi autori animati inizialmente da ambizioni artistiche e di forte impegno si ritroveranno coinvolti nel ciclo produttivo di veri e propri blockbusters. Questo è il caso di Francis Ford Coppola che alterna pellicole come La conversazione (1974) a megaproduzioni come Il Padrino (1972) e Il padrino parte II (1974), oppure Steven Spielberg, impegnato inizialmente con Duel (1971) e Sugarland Express (1974), e che a partire da Lo squalo (1975) darà via ad una serie infinita di film campioni di incassi, o ancora George Lucas, che passerà da American Graffiti (1973) alla saga di Guerre Stellari. Molti dei nuovi autori vivono il rapporto con la Hollywood classica come un ripensamento, una rilettura della tradizione e del resto molti di essi hanno studiato cinema all’università e ne conoscono a fondo le peculiarità; le pellicole di questo periodo portano chiaramente l’imprinting del regista ma non sono completamente svincolate dalla tradizione. Terrence Malick, nello specifico, ne mutua i grandi spazi, le praterie, la dimensione in qualche modo universale che gli sconfinati paesaggi della wilderness americana, sempre sontuosamente fotografata, riesce ad imprimere sulla pellicola. Ogni suo film del resto persegue il raggiungimento di uno stato di grazia che si concretizza in opere preziose ma senza maniera e sofisticate nella loro cruda semplicità, come l’animo umano, sempre messo a nudo nella propria dolorosa e ambigua trasparenza.

I giorni del cielo, il secondo grande cult di Malick, arriva nel 1978 e conserva di Badlands quel sapore amaro che si sostituisce alla catarsi. La retorica dell’happy ending lascia così spazio al realismo, supportato dalla voce off di Linda, personaggio secondario che, proprio in quanto tale, permea il racconto di un efficace effetto straniante. Uno spiazzamento ovvio, con una perdita di soggettività ma anche di attendibilità dell'informazione. La bambina, infatti, vive la vicenda marginalmente, il suo commento didascalico offre allo spettatore molto meno di quanto testimonino le immagini. Come la rarefazione della psicologia dei personaggi, questo artificio tende a valorizzare, nemmeno tanto paradossalmente, la componente più specificatamente cinematica, fungendo quasi da didascalia di film muto (3). Il film fece incetta di premi: al Festival di Cannes il Prix de la mise en scène, David di Donatello per il miglior attore straniero a Richard Gere e David di Donatello per la migliore sceneggiatura straniera allo stesso Malick, venne giudicato inoltre il miglior film dell’anno 1978 dalla National Board of Review Awards. Nestor Almendros si aggiudicò per la fotografia nientemeno che un premio Oscar mentre Ennio Morricone, per la celeberrima colonna sonora, prese invece il premio BAFTA ed ebbe per l’Oscar solo la nomination.

I giorni del cielo sono momenti transitori di felicità. Malick sembra qui ripetersi in una variazione sul tema, riprendendo in qualche modo la giovane coppia criminale di Badlands (Martin Sheen e Sissy Spacek lasciano il posto a Richard Gere e Brooke Adams), ma a ben vedere acquisisce un rigore spietato nella rappresentazione di un determinismo ambientale che incatena i protagonisti. Proprio su questo punto il regista entra in contatto diretto con la grande demifisticazione socio-culturale operata dalla New Hollywood: l’impossibilità di una mobilità e di un riscatto sociale e l’inquetudine generata dall’impotenza di decidere della propria sorte, fanno deflagrare il concetto stesso di liberismo che ha animato il sogno americano. Le certezze del libero arbitrio crollano come un castello di carta sotto il peso della Storia, che a questo punto assume per i personaggi il sembiante del destino ineluttabile. Da questo stato di estrema passività deriva l’abiezione, l’omicidio: questa oscura percezione dell'impotenza a modificare la propria sorte priva i personaggi di una precisa spinta motivazionale. È quindi conseguente la loro “amoralità”, la mancanza quasi totale di psicologia, la relativa indifferenza con la quale essi si pongono di fronte agli avvenimenti. Nel loro “fare quello che accade” sembra trovare concretezza l'unico “sentimento” che li accomuna: l'istinto di conservazione (4).

Lo stesso rapporto incestuoso vissuto dai due personaggi principali che, fingendosi fratelli, attirano le bieche attenzioni dei compagni di lavoro nei campi trova reale e giustificato compimento solo quando si concretizza nell’adulterio, in una trasgressione dell’ordine sociale tuttavia illusoria, un piacere cinetico e transeunte che prelude alla morte del padrone, l’unico vero atto di presunzione di anime errabonde schiacciate dal peso del destino e della natura e che migrano incoscienti come sciami di cavallette. Nessuno è perfetto. Al mondo non c’è mai stata una persona perfetta.

Note:
(1) Antonio Costa, Saper vedere il cinema, Bompiani, Milano, 1985
(2) Franco La Polla, Il nuovo cinema americano, Marsilio, Venezia, 1978
(3) Paolo Vecchi, Cineforum n. 187 - 9/1979
(4) Paolo Vecchi, Cineforum n. 187 - 9/1979

TITOLO ORIGINALE: Days of Heaven; REGIA: Terrence Malick; SCENEGGIATURA: Terrence Malick; FOTOGRAFIA: Néstor Almendros; MONTAGGIO: Billy Weber; MUSICA: Ennio Morricone, Leo Kottke; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1978; DURATA: 95 min.

 


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