The Ward: il ritorno di John Carpenter PDF 
Nando Dessena   

John Howard Carpenter torna al cinema dopo quasi dieci anni di assenza. Dopo Fantasmi da Marte, sorta di space-western-horror uscito nel 2001, arriva ora nelle sale italiane l’attesissimo The Ward – Il reparto, presentato in anteprima nel 2010 al Toronto Film Festival, e successivamente al Festival di Torino. Nel mezzo stanno Cigarette Burns e Il seme del male, due episodi della fortunata serie televisiva Masters of Horror creata da Mick Garris.

North Bend, Oregon, 1966. L’orrore si sviluppa all’interno dell’istituto psichiatrico dove viene internata la giovane e bellissima Kristen (Amber Heard), accusata di aver dato fuoco ad una fattoria. La ragazza si accorge ben presto delle anomalie del reparto dove viene segregata e, dopo aver assistito alla progressiva scomparsa delle proprie compagne di prigionia, decide di tentare la fuga, ostacolata da un’inquietante presenza sovrannaturale che le da la caccia. Carpenter torna all’orrore di matrice più classica, rielaborando i codici dello slasher movie e i propri tòpoi cinematografici. Nel corso degli anni il regista americano sembra essere passato senza sosta da una rivisitazione continua e personalissima del classicismo hollywoodiano ad un feticismo dell’immagine e del suono, da un interesse morboso per la fisica quantistica ad una deflagrazone politica del cinema orrorifico, andando aldilà di una classificazione di genere e conquistando di diritto uno statuto di autorialità. Ricorrente è l’aggancio  del cinema carpenteriano al western come referente di genere: il personaggio di Kurt Russel in 1997: Fuga da New York, Snake Plissken, ricorda da vicino l’eroe solitario fordiano di Sentieri Selvaggi interpretato da John Wayne; così anche la figura narrativa dell’assedio, tipica del genere di frontiera, viene recuperata, già dal titolo nel primo caso, in Assault on Precinct 13, poi in The Fog, ne Il signore del male, in cui il gruppo di ricercatori è letteralmente intrappolato tra due fuochi, e, magistralmente, nello space-western-horror Fantasmi da Marte.

Inutile aggiungere che questo The Ward, nonostante l’abbandono dell’amato formato panavision e il tipico Carpenter’s touch nella colonna sonora, si colloca in una linea di continuità con le opere precedenti, dalle quali si discosta solo in apparenza. Infatti, se si pensa all’horror contemporaneo e all’ingombrante presenza del corpo oggetto di continue metamorfosi, deformazioni, veicolo stesso di un male sempre e comunque endemico, pare a tratti forzato collocarvi in maniera univoca l’eterogenea produzione del regista di Carthage.  Tuttavia, l’idea di realtà, non solo evocata ma ricostruita di opera in opera, il continuo riferimento ad altri mondi, dimensioni, cose (mai viste?) possibili, e un pragmatico sguardo nell’ottica della realizzazione artigianale, potrebbe accomunare pellicole tanto diverse tra loro: da Distretto 13: le brigate della morte (Assault on Precinct 13, 1976) a Grosso guaio a Chinatown (Big Trouble in Little China, 1986), da Halloween, la notte delle streghe, (Halloween, 1978) a 1997: Fuga da New York (Escape from New York, 1981), da Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1994) fino ad arrivare appunto a The Ward. Carpenter, forse proprio grazie all’approccio classicista, e a differenza di molti altri colleghi, è riuscito a mantenere una certa coerenza nel proprio cinema. E, all’interno del panorama orrorifico, Il signore del male, e per certi versi anche The Ward, segnano quasi un ritorno alle radici semplici e dirette della proposta degli anni Settanta. In mezzo c’è stato un periodo di crisi, che qualcuno valuta invece positivamente: “è il periodo barocco, quando il fuoco d’artificio degli effetti speciali si sostituisce alla profondità simbolica ed emozionale, al discorso sull’immaginario che aveva avuto luogo negli anni Settanta; è l’orrore incrociato con il demenziale in cui l’effetto di paura si rovescia, a causa della ridondanza, nel riso”(1). Pur nella disgregazione del cinema narrativo, schiacciato dalla supremazia del visivo, Carpenter non ha mai rinunciato alla dimensione orrorifica generata dalla paura dell’invisibile, l’horror vacui, l’indistinguibile: “questa concezione classica dell’horror conduce il visibile a coincidere con ciò che è assente, costruendo una sorta di non-esserci che fa del vedere stesso una zona di latenza, segno dell’invisibile che lo qualifica in ogni sua dimensione” (2).

Carpenter espone una sorta di teoria dell’orrore quasi in opposizione ad altri registi a lui vicini, come ad esempio Wes Craven: non sembra esistere una realtà tangibile che faccia da contraltare allo statuto onirico del cinema, che non si identifica con un incubo, un Nightmare, dal quale ci si può risvegliare, perché la realtà, il cinema e l’orrore sono perfettamente allineati, vanno a coincidere. La realtà stessa viene rifondata ad (da) ogni film, dentro ogni film, e, se di sogni si vuole parlare, essi sono in ogni caso di una lucidità estrema. E tutta la narrazione, sia testuale che visiva, è formulata di volta in volta su ipotesi concrete. L’ipotesi stessa dell’orrore, presente nella realtà fenomenica e da essa inscindibile, è un referente di una potenza inaudita che va quasi a minare alla base lo stesso genere cinematografico. Lo spettacolo orrorifico permea il vivere quotidiano, la metropoli stessa avvolge il nostro immaginario e lo stritola con mostruosi tentacoli; così il cinema contemporaneo si sviluppa lungo coordinate extracinematografiche, macroscopici appigli a cui lo spettatore non fatica ad agganciarsi, anche attraverso una visibilità estrema dell’orrore garantita da ingenti investimenti negli effetti speciali, che rendono perfettamente verosimile e ve(n)dibile ogni rappresentazione plastica dell’immaginario, anche la più improbabile. L’autoreferenzialità del mezzo permette l’installarsi delle produzioni filmiche all’interno dei generi stessi, così per le maxiproduzioni di Steven Spielberg e George Lucas, ad esempio, è semplice impossessarsi del referente fantascientifico in una prospettiva diacronica, che permette di mutuare i codici classici nell’ottica di una riattualizzazione, peraltro anticipatrice rispetto al presente reale. Il tutto si risolve in un successo di pubblico garantito proprio dall’istituzione di un tempo nuovo, di un futuro in fieri ma di cui sono già state gettate le fondamenta: “Paradossalmente solo oggi la tecnologia del cinema è sufficientemente avanzata da poter rappresentare una tecnologia avanzata in declino” (3). Il cinema che si pone, dunque, come realtà e non più come semplice imitazione della vita, che talvolta giunge all’inevitabile implosione, come nel caso dell’infinito work in progress dell’apocalisse di Coppola, tentativo di realizzare, attraverso una produzione miliardaria, un sogno che è già il tentativo di costruzione di un mito.

All’opposto di questa tendenza si pone il cinema di Carpenter, soprattutto, come si è visto, nelle prime opere, nutrito di cinema e solo di cinema. Film che giocano con il genere (con i generi)  grazie ad una conoscenza estrema dei meccanismi che lo (li) costituiscono. Pur mettendo in scena la realtà, il cinema carpenteriano non ne è compromesso: “è più avanti, in una situazione di assoluta amoralità, dentro la lucentezza di una perversione senza maschere. L’orrore non farà paura. Con gli stessi elementi di invenzione visiva semi-iperrealista che troviamo mescolati nelle massime punte del cinema morale del piccolo borghese Scorsese (Taxi Driver, New York, New York), Distretto 13 fa della paura urbana una situazione affascinante di gioco. Nulla né prima né dopo né davanti né dietro lo schermo”(4). La stessa opera prima, quel Dark Star realizzato con il ridicolo budget di 60.000 dollari, parodia del genere fantascientifico, è già pregna dei motivi che verranno sviluppati in seguito, e, come fa notare affettuosamente Ballard, l’astronave denominata Dark Star “dopo un po’ comincia a somigliare a quell’astronave chiamata terra” (5). Con Halloween, invece, Carpenter firma il primo capitolo di una vera e propria saga che, tuttavia, non conserverà nei capitoli successivi la freschezza del primo episodio. L’orrore è generato da un elemento perturbante, Michael “the Shape” Myers, che terrorizza la cittadina di Haddonfield ponendosi come personificazione diretta del male, un male di natura fantastica, soprannaturale e tuttavia concreto e corporeo nella propria fisicità. Un’altra dimensione si spalanca sulla cittadina, una dimensione lovecraftiana che giustifica la presenza, o meglio l’incursione, del killer infernale, che spesso la critica ha connotato come una sorta di psicopatico con disturbi della sfera sessuale, con l’unica missione di condannare il falso puritanesimo della piccola comunità di provincia. Da qui deriva anche l’idea, estrema, di un Carpenter moralista che fa sopravvivere agli assalti di Michael soltanto Laurie Strode, l’unico personaggio morigerato che vive un rapporto decisamente conflittuale con il sesso. In realtà, il regista stesso ha smentito tale intento e, ancora una volta, esprime la propria volontà di fare cinema, solo cinema, e la fitta rete di citazioni di cui Halloween è intessuto non fa che rafforzare tale assunto.

La chiave di lettura è sempre e comunque  il cinefilo sguardo sulla realtà, sulla notte, sull’orrore, a partire dalla superba costruzione della soggettiva iniziale, il filtro/maschera che banalmente invita/obbliga a condividere il punto di vista dell’assassino, ma che insinua nello spettatore una percezione letteralmente alterata per tutta la durata della pellicola. “Ciò che viene messo in gioco è un’originale teoria o poetica della visibilità, in cui il meccanismo film-spettatore-cinema diviene pura etica dello sguardo” (6). Solo apparentemente le spore del morbo fantastico portate con sé dalla nebbia di The Fog si allontanano da tale concezione: intanto, il preciso riferimento temporale, la data sovraimpressa, l’immancabile unità di tempo, elemento narrativo finora sempre rispettato da Carpenter, non fanno che ancorare lo sviluppo della vicenda alla realtà stessa, che però, si badi bene, è la realtà stessa carpenteriana, ovvero, il cinema. La costruzione è puramente artificiale, esclusivamente formale, il gioco di un cinefilo che scardina, dimostrando in ogni caso di conoscerle a fondo le convenzioni del genere. Un universo, quello di Carpenter, fatto di citazioni in cui si attraversano i differenti piani del racconto per mezzo di geniali movimenti di macchina, come la panoramica verticale che proprio in The Fog collega, nel prologo, il primo piano del vecchio cantastorie con il campo lungo della baia, scendendo nuovamente per mostrare la chiesa della cittadina. L’intenso onirismo che pure permea tutta la pellicola, introdotto dalla citazione di Poe “Is all that we see or seem but a dream within a dream?”, rinvia a forme di narrazione fantastiche, ad una tradizione della ghost story che già aveva avuto compimento in Halloween. Ma, del resto, ciò che Carpenter persegue è la filmicità, valore esclusivo della propria produzione. Così, in 1997: Fuga da New York, seppur sospendendo l’atmosfera fantastica delle due pellicole precedenti, Carpenter non rinuncia alla consueta rielaborazione dei codici di genere: convivono in questa pellicola il western, mutuato dalla trilogia del dollaro di Sergio Leone, una fantascienza neanche troppo avveniristica  – se si pensa alla crisi economica affrontata da New York, che in quel periodo conobbe un degrado senza precedenti – e l’orrore di una metropoli sprofondata nel nero di una notte senza fine. 

Dal nero al bianco abbacinante dell’antartide in The Thing: la mostruosità invisibile si manifesta, con inaudita violenza, attraverso il corpo. La Cosa, l’orrore, sono obbligati a mostrarsi in un gioco dell’esibizione che è attrazione, che è, ancora una volta, cinema. Nessuna identificazione, tuttavia, nessun investimento sentimentale e nessuna caratterizzazione fiabesca della Cosa, dell’alieno: usciti contemporaneamente nelle sale, The Thing ed E.T. non potrebbero essere più distanti. Il piccolo mostro antropomorfo spielberghiano va oltre l’estetica del make up e si pone in linea diretta con lo spettatore. Il trucco povero del già trasformato porta inevitabilmente con sé il carattere rassicurante dovuto al salto, netto, da uno stato all’altro, ovvero il riconoscere l’artificio stesso, meliesiano, del cinema. La metamorfosi della cosa, invece, non può trasgredire alla proibizione baziniana del montaggio; l’effetto speciale diviene qui essenziale, è lo statuto stesso del genere a rendere obbligatoria la visione della trasformazione, della metamorfosi. La qualità forse più preziosa del nuovo orrore è dunque garantita dalla visione senza stacchi. Il piano sequenza, la realtà, empio pasto per un occhio avid(o) che vuole vedere tutto ma a cui non resta che constatare l’impossibilità di riconoscere una forma nella Cosa: “Occhio dissanguato allora, occhio freak, occhio che in ogni momento può cominciare a friggere e delirare. La cosa è la messa in scena del cinema come pupilla (tanto bianco intorno, infatti) in cui tutto ciò che appare è pronto a dichiarare il suo non-senso, in cui qualsiasi ordine può aprirsi e mostrare orrori infiniti lovecraftiani” (7). Il gioco dell’identità, della continua mutazione è il gioco stesso del cinema, la mummia del cambiamento che Carpenter riempie con le proprie ossessioni. Ovvia la constatazione, metafilmica, della forma-remake, della Cosa-remake; il cinema di Hawks, sempre omaggiato, viene stavolta letteralmente imitato e, attraverso le continue metamorfosi della cosa da un’altro mondo, letteralmente ribaltato, così può giungere ad una nuova forma. L’ipotesi della minaccia dell’invasore esterno lascia spazio alla paranoia e al sospetto, all’inganno e alla mistificazione, sostanzialmente ad una sfiducia nel genere umano stesso, colpevole di aver progressivamente disintegrato la società. Nessuna liberazione da parte del mezzo cinema, nessuna salvezza, nessun happy ending che metta fine alle sofferenze o interrompa il contagio.

Nelle opere successive invece, dopo la cesura di The Thing, Carpenter introduce nel suo cinema la personale ossessione per la meccanica quantistica, che ha senz’altro contribuito all’assottigliarsi del confine, peraltro già piuttosto labile nei film precedenti, tra realtà, cinema e concezione dell’orrore. La tematica, anticipata in Grosso guaio a Chinatown, diviene esplicita ne Il signore del male, in cui, contrariamente a quanto buona parte del pubblico ha percepito, non si evidenzia affatto un’identificazione del male con la concezione diabolica che di esso ha il mondo cristiano, ma tutto si regge sul principio dell’indeterminazione, mutuato per l’appunto dalla fisica dei quanti. Le leggi che governano il mondo subatomico, terreno dell’incertezza per eccellenza, non possono prescindere dall’intervento dell’osservatore; è lo spettatore con il suo sguardo a garantire lo status di realtà all’atomo, e in assenza di tale sguardo esso non sarebbe nulla più che un fantasma. Applicare tale legge al mondo fenomenico è impossibile, occorre piuttosto fondere i due mondi, quello dell’esperienza e quello dell’infinitamente piccolo, sovrapporli in un’unica proiezione. Questo è quanto propone Carpenter nella propria evoluzione cinematografica, che prevede il contatto con altre dimensioni, non più soprannaturali in quanto supportate da una moderna concezione della fisica. Ed è qui che il cinefilo, lo scienziato e lo spettatore si (con)fondono. Non è più possibile distinguere la realtà.

Nel successivo Essi vivono (They Live, 1988), senza abbandonare la tematica scientifica e senza sottovalutare il potere dello sguardo, viene rappresentata una minaccia aliena figlia de La Cosa, in cui la mostruosità è perfettamente integrata nella realtà quotidiana, difficilmente individuabile e addirittura supportata da un potere oligarchico terrestre, un vero e proprio cont(r)atto. Il mostro è in noi, noi stessi siamo mostri. L’orrore si cela sotto il dominio della visione, delle immagini subliminali dei media e, quasi fosse uno spettacolo in 3D, bisogna utilizzare delle lenti speciali per riuscire a captarlo: la protesi oculare, la lente, l’obiettivo della macchina da presa. Ancora una volta è di cinema che Carpenter ci parla, ancora una volta è con il cinema che egli alimenta il proprio cinema. Anche Avventure di un uomo invisibile si pone su questa linea, attaccando il bieco capitalismo (dell'era reaganiana) e l’esaltazione dell’apparenza a discapito della reale sostanza. La perdita della visibilità a questo punto sembra l’unica via per acquisire consapevolezza di sé. Ma, senza dubbio, il risultato più ambizioso è raggiunto da Carpenter con la realizzazione di quel piccolo masterpiece che è Il seme della follia. Il film è una sorta di antologia, una summa delle ossessioni del regista, ed è un’opera palesemente metacinematografica. La scrittura, il mondo dei best-seller e della letteratura cheap dei paperback, sono dei referenti solo apparentemente extrafilmici. Se cimentarsi direttamente con Stephen King in Christine, la macchina infernale ha rappresentato forse il punto più basso, giudicando almeno l’originalità e l’apporto personale, della carriera carpenteriana, in questo lavoro si vola dritti tra le fauci della follia; la critica poco velata della serializzazione  e della svilente  autoreferenzialità del genere horror contemporanea vira ben presto su tinte più fosche. Anche se Sutter Cane è palesemente una caricatura di Stephen King, Carpenter agita il proprio sguardo letterario su altri autori; John Trent, lo scettico, il demistificatore di professione, colui che svela trame e inganni nel proprio materialissimo mondo assicurativo, si trova a dover fare i conti con una realtà che non gli appartiene, o meglio che egli disconosce come realtà. Trent non è affatto dissimile dal Ragle Gumm descritto da Dick in Time Out of Joint, con la differenza che l’orrore nel quale viene catapultato è tremendamente affine all’universo mostruoso di Lovecraft. La lucidità di Carpenter sta nella rappresentazione del progressivo mutamento di coscienza del personaggio, che non riuscendo ad acquisire la consapevolezza della simultaneità delle diverse dimensioni in cui è costretto ad agire, letteralmente, impazzisce. La propria deformazione professionale spinge Trent ad autoconvincersi che le bizzarrie alle quali assiste siano frutto di un inganno dai beceri fini pubblicitari: “You people are professionals, I'll give you that. Special effects, hidden speakers”, sentenzia in una delle sequenze chiave del film, e continua “We are not living in a Sutter Cane story! This is not reality!”, ricevendo in cambio una cupa risposta, che sembra quasi sia lo stesso Carpenter a fornire: “Reality is not what it used to be”. La realtà non è più la stessa, il cinema non è più lo stesso, tanto meno l’orrore. Il feroce attacco al sistema mediatico, capace di influenzare e contagiare la massa, con la letteratura nella fattispecie, è il contraltare politico della pellicola, similmente a quanto già espresso con Essi vivono. Paradossalmente, nel finale, è proprio al cinema che il personaggio rivede le proprie gesta, in una sala dove viene proiettato il film tratto dal libro di Cane, e che realizza l’impossibilità di sfuggire al contagio della serializzazione: “What about the people who don't read? There's a movie!”. In questa ambiguità Carpenter colloca il personaggio di Trent, calato nella finzione filmica e immerso a sua volta nella scrittura di Cane, attore e spettatore allo stesso tempo. Spettatore è ancora Kurt Russell, che dopo aver esplorato i sordidi sobborghi di New York, aver intercettato la Cosa e aver visto, in  Grosso guaio a Chinatown, l’invisibile energia del corpo, torna al grado zero della visibilità con Fuga da Los Angeles che “lavorando sul doppio, sulla replica, sulla ri-visione, fa di questa messa in abisso dello spettatore uno snodo soprattutto teorico” (8). Snake Plissken è uno spettatore disilluso, ha già visto tutto quello che poteva vedere.

Riconsiderare il valore di una pellicola come The Ward diviene a questo punto, alla luce di una analisi del corpus cinematografico carpenteriano, molto più semplice e meno forzato. Of, course, non c’è scampo: “Ciò che resta – che siano i corpi ridotti a poltiglia, illividiti dalle ferite, sfigurati, incessantemente mutanti, o invece paurose indagini sui meandri dell’inconscio, ombre oscure che opacizzano il reale – è la dimensione dell’ambiguo, costitutiva dialettica cinematografica fra quello che continuamente sfugge alla visione e l’invisibile che solo in essa sembra potersi cogliere” (9). Il male, in The Ward, si è inesorabilmente diffuso come una metastasi e ha raggiunto il cervello. La percezione allucinata che ne consegue fornisce il materiale carnoso che garantisce l’infiorescenza di nuovi corpi. A metà tra gli angusti spazi cerebrali del Corman del ciclo Poe e l’icastica potenza del miglior Cronenberg, Carpenter muove i propri carrelli lungo i corridoi del reparto inseguendo le geometrie asfittiche di una patologia mentale.

Note:

(1) AA. VV., 'Speciale Horror Anni Ottanta', Cineforum N.286, Federazione Italiana Cineforum, Bergamo, 1986
(2) Lorenzo Esposito, Carpenter, Romero, Cronenberg, Discorso sulla cosa, Editori Riuniti, Roma, 2004
(3) J.G. Ballard, Hobbit nello spazio?, in Time Out, 1977
(4) Enrico Ghezzi, Carpenter, paura in città, in Il Patalogo, 2, 1980
(5) J.G. Ballard, American Film, 1987
(6) Lorenzo Esposito, op. cit.
(7) Enrico Ghezzi, L’entità della cosa (il doppio del cinema), in Il Patalogo, 5-6, 1983
(8) Lorenzo Esposito, op. cit.
(9) Lorenzo Esposito, op. cit.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.