Sono passati trent’anni da La notte delle streghe, il primo capitolo della saga di Halloween di John Carpenter. E, dopo innumerevoli sequel, il terzo millennio vede il gran ritorno dell’epopea per opera di uno degli autori di genere più eclettici e controversi di sempre, Rob Zombie. Il regista de La casa dei 1000 corpi costruisce un prequel quale ulteriore tappa nel lavoro di rimitizzazione di una delle feste tradizionalmente più amate negli Stati Uniti. Proprio perché commercializzata, assurta a ruolo folkloristico-decorativo dallo strombazzamento mediatico che è arrivato a propinarcela anche qui, nel cuore di una cultura lontana anni luce, quella che nasce come la notte del terrore per eccellenza non riscuote ormai più nell’immaginario collettivo e cinematografico quella fascinazione che ha pur avuto in altri tempi. Un processo di banalizzazione, di impoverimento e appiattimento delle più profonde tradizioni favolistiche e ancestrali di una cultura vasta e frammentata come quella americana, figlia di tanti popoli diversi alla ricerca di una propria identità comune. Carpenter puntava proprio sul conosciuto, su una notte in cui, invece della paura, domina l’ironia, dove invece di chiudersi, di barricarsi in casa per paura dei mostri, i bambini scendono per le strade, socializzano, si incontrano. Notte sicura come nessun’altra, in cui le mamme aspettano serene a casa, senza paura per i figlioletti in giro per le strade. Carpenter rigettava in faccia al pubblico americano le inquietudini e il terrore che erano peculiari di un momento diventato paradossalmente di unione, di comoda sicurezza: giocava il suo contrappasso ritornando, in chiave modernista, alle origini e al senso di quelle favole che riassumevano una lacera carnalità in Michael Myers. Rob Zombie segue molto intelligentemente questo spunto per raccontare, forzando ovviamente un po’ la mano in fase di sceneggiatura, la genesi di uno dei più macabri ed efferati killer della storia del cinema. La strada seguita ricalca le orme di Carpenter nel risvolto macabro-orrorifico di una provincia americana che sembra un incrocio tra i quadri marci ma perfetti di un Lynch d’annata e la disfatta famigliola del Tideland di Gilliam. Ma se quest’ultima veniva “sconfitta” dalla vita, dal vizio e dalla tristezza, il male che alberga nella casa-con-portico-e-amaca di Zombie è del tutto umano, la tremenda umanità di un bimbo che stermina a sangue freddo una famiglia intera, sorellina in fasce esclusa. Ed è questa la parte migliore di tutto il film, gestita autisticamente elidendo i rumori, lasciando parlare la paura, la chiusura verso il mondo percepibile. Una maschera ci impedisce per lunghi tratti di vedere in volto il bimbo killer, il silenzio ci impedisce di entrare in contatto con l’esperienza filmica, e allo stesso tempo ce la restituisce appieno, favorendo un’immedesimazione altrimenti impossibile. La scritta “quindici anni dopo” sancisce la fine del racconto dell’infanzia di Michael Myers, ma determina anche la fine dello spazio d’autonomia del regista, che si ritrova suo malgrado imbrigliato in un’ora e mezza di amenità di genere, raccordate da una sceneggiatura didascalica e depotenziate da qualsiasi carica immaginifica sovversiva. Lo scarto è impressionante, e all’inizio (quasi) folgorante fa da contrappunto una seconda parte dozzinale, che racconta di un killer qualsiasi, priva di ogni possibile empatia, che si perde tra raffiche di sequenze fotocopia e imbarazzanti citazioni (su tutte il tentativo di omaggio a Blade Runner). Il “The beginning” di Non aprite quella porta aveva lasciato ben sperare che l’ormai avviatissima stagione di prequel non si rivelasse solamente una mera operazione commerciale. Osservare come è stato imbrigliato il talento di Rob Zombie ci torna a far pensare al peggio… TITOLO ORIGINALE: Halloween; REGIA: Rob Zombie; SCENEGGIATURA: Rob Zombie; FOTOGRAFIA: Phil Parmet; MONTAGGIO: Glenn Garland; MUSICA: Tyler Bates; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2007; DURATA: 121 min.
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