Dreams are my Reality PDF 
Aldo Spiniello   

Sarà la suggestione della recente scomparsa di Claude Pinoteau, ma, proprio nell'istante in cui ci accingiamo a scrivere sull'ultimo film di Matteo Garrone, non riusciamo a toglierci di mente i versi di Richard Sanderson: Dreams are my Reality. Un ingenuo leitmotiv dell'immaginario si trasforma di colpo in un segnale direzionale piantato lungo il percorso di mutazione di uno dei registi italiani più osannati degli ultimi anni. Sarà una follia, l'aborto di un accostamento azzardato. Ma tant'è. Matteo Garrone, in fondo, è come se avesse compiuto tutt'intero questo percorso di sostituzione del sogno alla realtà. Dapprima con una cesura netta, dal cinema di taglio documentaristico degli esordi all'elaborazione formale de L'imbalsamatore. Poi, con una lenta, ma progressiva perdita di peso della dimensione realistica in favore di una strategia controllata della pratica cinematografica, che cerca di chiudere ogni spiraglio alla possibilità di un elemento spurio, di un imprevisto capace di far deflagrare il cinema. Per Garrone, ogni spunto narrativo, ogni elemento profilmico e ogni movimento di macchina, tutto deve essere rigorosamente sottoposto alla complessità presupposta del disegno, stipato nella definizione di una macchina cinematografica perfetta, a tenuta stagna. Le ragioni dell'ispirazione, i richiami di un'intuizione imprevista sono sacrificati a questa strategia, trattati, filtrati, elisi in nome di un obiettivo irrinunciabile. Per Garrone, il cinema diventa una specie di spazio laboratoriale asettico. La realtà si trasforma automaticamente in un reality ricostruito a monte, un universo filtrato attraverso la lente di una forma autoriale che non ammette esitazioni, ripensamenti, non consente fratture nella compiuta pianificazione del movimento.

Reality è un film che, in questo senso, appare quasi programmatico. A cominciare dal piano sequenza iniziale, quell'inquadratura "celeste" che con un movimento sinuoso e lentamente digradante segue la carrozza degli sposi che s'avvia verso la maestosità kitsch del Grand Hotel La Sonrisa, tempio riconosciuto del trash meridionale. Movimento a cui fa il paio, in una circolarità perfetta, quello del finale, con la macchina da presa che si stacca dal protagonista, finalmente a casa, per salire al cielo e abbracciare le luci artificiali della (cine)città. Ecco. L'immagine è chiara. Il cinema di Garrone guarda alla complessità del mondo che pretende di raccontare con la stessa precisione e vicinanza con cui Google Earth riesce a mappare la Terra. Un'immagine fedele, senza dubbio (Garrone non si permette mai una stortura, un anacronismo, quelle cose che rendono eccezionali Martone e Bellocchio), ma comunque ottenuta per difetto, un precipitato depositato sul fondo del reale, privato della sua complessità, delle sue differenze qualitative, delle sue impurità. Un'immagine congelata e offerta alla funzionalità di un film software, "prodotto leggero", che, per vocazione, risponde a un bisogno (punto fondamentale, tenere a mente). Sottoposto a questo trattamento, il reale decade, eppur pretende di ritornare a dar mostra di sé sotto altra veste, manifestarsi come metafora. Piegato dall'artificio, il mondo diventa iperreale.

Questa incontenibile vocazione di Garrone al trattamento incontra la sua cavia perfetta in Napoli, la città teatro per eccellenza, luogo della performance quotidiana, spazio-palcoscenico di una vitalità talmente assurda da apparire per forza di cose artificiale. Ed è proprio il modo in cui si articola lo sguardo di Garrone su Napoli a restituire il senso di una progressiva chiusura claustrofobica del suo cinema. Al centro di Gomorra c'è un quartiere famigerato, Scampia, circondato dall'infernale desolazione della periferia. C'è, insomma, ancora la realtà di un luogo, la traccia di una densità concreta. Eppure, già quello spazio costituisce un set perfettamente concluso, assolutamente impermeabile all'esterno. Nei fatti (Scampia come mondo a se stante, retto da regole proprie) e nelle intenzioni (l'esigenze del controllo della messinscena) si crea una specie di bolla sottovuoto in cui sperimentare l'idea di un cinema sostanzialmente immune, quindi profondamente innocuo (come mai Garrone gira a Scampia indisturbato?). E dalla periferia della città fino alle terre dei Casalesi, il rapporto tra i personaggi e gli spazi segue un formalismo ricercato, tra prospettive desolanti e formule definitive. Diviene, insomma, finalmente evidente la sostanza manipolatoria del cinema di Garrone, che sottopone la realtà a una specie di trattamento depurante, che ne garantisca una sorta di amplificazione espressiva. Con la pretesa, tra l'altro, di muoversi sul crinale scivoloso di un terreno immaginario (i due ragazzi che fanno il verso a Scarface). E, forse, allora, il miglior commento a Gomorra è la parodia che ne fa il trio comico i Ditelo Voi (non a caso uno dei tre, Lello Ferrante, sarà Enzo del Grande Fratello in Reality). Gomorroide (!) conferma, da un lato, la presa immaginaria ormai innegabile del film (che sorpassa su questo piano a velocità almeno doppia il libro di Saviano). Ma, d'altro canto, rovesciandone di segno le scene più famose, scardina completamente il senso e il tono dell'operazione di Garrone, mostrando proprio quel suo costante margine di scollamento rispetto all'universo raccontato e quella vocazione latente al reality (magnificamente centrata dall'idea geniale di raccontare l'arruolamento dei nuovi sgherri della camorra come fosse un'audizione di X-Factor: "Guagliò, per te la camorra finisce qua!").

Ecco: Reality porta a compimento un percorso e chiude il cerchio proprio nel modo in cui sceglie di raccontare la/le città come un insieme di spazi finti: la piazza con la pescheria di Luciano completamente ricostruita, la sequela impressionante di non luoghi, le no man's land della contemporaneità, dal Grand Hotel La Sonrisa ai centri commerciali, dall'outlet (di Marcianise?) in cui lavora Maria, la moglie del protagonista, fino all'apoteosi dei teatri di posa di Cinecittà. Tutto questo lavoro sugli ambienti può sembrare assolutamente coerente con l'assunto di fondo del predominio della manipolazione spettacolare, e della desertificazione del reale, sulla mutazione antropologica dell'uomo catodico. Ma, in effetti, è più logico vedere questa scelta come il necessario punto d'arrivo di un percorso stilistico che, film dopo film, vuole perdere contatto con il caos delle cose per rifugiarsi tra le quattro mura sicure di un set intangibile. Un modellino labirintico alla Kubrick, dove muoversi nell'illusione di un pieno dominio, senza timore di essere messi in crisi dagli imprevisti di uno spazio aperto e vitale. Il racconto, da un lato, (e sarebbe interessante capire il peso di Massimo Gaudioso nell'evoluzione del cinema di Garrone) e la forma, dall'altro, tracciano una traiettoria a spirale che ripiega su se stessa, in una sorta di delirio autistico, monotono. Un andamento folle che, nella deformazione grottesca, assume una connotazione spaventosa. Reality horror. Ma il punto è proprio questo. Garrone non sembra mai accorgersi di quanto sia l'inquadratura il vero manicomio, la terribile prigione che ingabbia la cose nella stretta asfissiante di una dittatura di senso. Eppure l'ultimo Carpenter ci era sembrato definitivo nel suo furore anarchico. La paura, qui, non nasce dall'evidenza delle cose tramutate nel fantasma di un'immagine. È a monte. È il terrore di uno sguardo che rifiuta di lasciarsi andare, che, nell'ansia di chiudere una carrellata, sembra perdere la sostanza emotiva delle cose e dei personaggi, abbandonando a se stessa la forza espressiva degli interpreti. "Sei volgare. Sei stato nominato", dice Nello Iorio nella solitudine di un fuoricampo francamente fuori luogo. E quella battuta sfuggita quasi per caso, racconta meglio di ogni altra cosa il timore di Reality: è una frase fuori controllo che preme contro le pareti di cemento armato del film, prova a forzarne i limiti, per ristabilire una specie di equilibrio ironico vitale.

Se il punto è semplicemente la metafora, allora Reality è fuori tempo massimo, in ritardo colpevole sulla definizione di una follia spettacolare generalizzata. La sua missione politica è di pura etichetta. Se, invece, come appare chiaro, il cinema di Garrone ambisce sempre più alla definizione di uno stile autoriale, allora è sotto il profilo della forma che mostra il suo fallimento. Perché non riesce in nessun istante a rinunciare a quella superficie spettacolare liscia su cui pretende di esercitare la sua critica. Non sa praticare una frattura nel velo di finzione che copre il mondo. Non s'introduce nelle contraddizioni per trovare il punto di rottura che apra nuove traiettorie. Basta pensare alla furia ribelle con cui Jean-François Richet si getta nella banlieu per avere un'idea di come il montaggio e il linguaggio possano esplodere e aprire la strada alla rivolta. Garrone è conforme a ciò che racconta. Per scherzo del destino, torna a essere mimetico e si accontenta di chiudersi nella casa con il suo protagonista (interpretato da Aniello Arena, attore ergastolano, scelta più che chiara). In fondo è il suo cinema il Grande Fratello tanto sognato. E la sua perfezione è così consolatoria da meritare un bel premio a Cannes, al fianco di un altro regista "senza macchia" come Haneke. In fondo tutto il mondo ha paura della crisi.

 


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